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Lady Diana e quella morte avvolta ancora nel mistero


- di Luca Fazi - L’abbiamo amata e continuiamo a farlo. L’abbiamo vista umana nell’esternare le sue debolezze senza timore. L’abbiamo potuta ammirare come se fosse “una di noi”, con quella nobiltà che risiedeva, prima che in un freddo titolo, nella dolcezza della sua anima. Abbiamo pianto al passaggio del feretro, in un giorno di settembre che custodiva ancora il tepore dell’estate ma odorava già di un lungo e triste autunno. Nel 2022 ricorrono i venticinque anni dalla scomparsa della principessa del Galles, o più comunemente nota come Lady D; addirittura un quarto di secolo che, tuttavia, non ha ingrigito i misteri e le forti perplessità inerenti alla sua morte.

Nella notte del 31 agosto 1997, insieme a quella di Diana, sono volate in cielo le anime del compagno (e famoso imprenditore) Dodi Al-Fayed, figlio di Mohamed, ex proprietario dei grandi magazzini Harrods, e il conducente della Mercedes S 280, Henri Paul.


Uno degli ultimi scatti della notte fatale - Paul alla guida

Sarà proprio l’eccessivo tasso alcolemico riscontrato nel sangue di quest’ultimo a far chiudere il caso, per il governo francese, già nel 1999: l’impatto dell’auto, contro il tredicesimo pilastro del tunnel dell’Alma, è stato causato dalla guida in stato di ebbrezza. I magistrati non nutrirono alcun dubbio, a differenza dell’opinione pubblica e del padre di Dodi. Troppe cose non coincidono secondo Mohamed. È soltanto l’amore di un genitore che non vuole darsi pace per la tragica scomparsa del figlio? Può darsi ma intanto, sviluppando a sue spese delle indagini private, vengono alla luce fatti inquietanti e idonei ad alimentare il versante complottistico.

Dall’Hotel Ritz, dove la coppia era uscita per raggiungere l’appartamento di Dodi sito in rue Arsène Houssaye, al punto esatto dell’incidente erano state sistemate ben dieci telecamere.


Telecamera di sorveglianza del Ritz

Una fortuna non di poco conto per ricostruire le dinamiche della tragedia… già, se fossero state in funzione. Tutti i dispositivi, stranamente, erano fuori uso e la telecamera più vicina non registrava già dalle ore 23:00, ossia circa ottanta minuti prima della disgrazia. Anomalo che tali apparecchiature, strategiche per rilevare eccessi di velocità (commutabili quindi in pene pecuniarie) fossero guaste proprio in quella precisa notte. Non sarà – purtroppo – l’unica stranezza del caso.

Secondo le indagini iniziali, l’auto procedeva ad alta velocità (intorno ai 150 km/h) ma la tesi, con il passare delle settimane e grazie al lavoro degli esperti nel settore, fu del tutto bocciata. Prima dell’ingresso nel tunnel, seguendo le varie ricostruzioni a computer, la vettura viaggiava verosimilmente intorno ai 110 km/h (di più sarebbe stato impossibile per imboccare il tratto) per poi urtare il pilastro a 90 km/h. Non finisce qui. Dai video registrati grazie alle telecamere interne del Ritz, antecedenti all’incidente, si può notare come Henri Paul (promosso da poco capo della sicurezza e collaboratore per la famiglia Al-Fayed già da un decennio) non apparisse affatto ubriaco. A dar manforte a quanto traspare c’è la testimonianza della guardia del corpo, Trevor Rees-Jones (unico superstite in quella notte parigina), che smentì in maniera perentoria il possibile stato di ebbrezza:

“Se ci fosse stato anche il minimo sentore, non gli avrei mai consentito di avvicinarsi alla vettura”.


Trevor Rees-Jones

Peccato che i ricordi dell’uomo siano tuttora molto annebbiati, se non proprio inesistenti, proprio per la totale amnesia causata dal trauma. Senza dubbio la Mercedes, utilizzata per depistare il copioso numero di paparazzi presenti al Ritz, non offriva garanzie in termini di sicurezza; doveva essere rottamata già da due anni e dalle testimonianze che emersero – anche dello stesso Rees-Jones – mostrava instabilità già una volta raggiunti i 60 km/h. Inoltre la macchina risultava del tutto inadatta per ospitare una fuga che non doveva dare nell’occhio: non era blindata e non aveva i vetri oscurati. E se ci fosse dell’altro?

Alcuni testimoni giurarono di aver visto una motocicletta tagliare la strada alla vettura con a bordo la principessa e, al contempo, aver notato un forte bagliore che proveniva dal tunnel nel momento dell’impatto. Di che cosa si trattava? A tal proposito furono sconcertanti le dichiarazioni che Richard Thomlinson (ex agente MI6, ossia i servizi segreti d’intelligence del Regno Unito) fece durante il processo in Francia. Raccontò di aver assistito diverse volte, negli anni di militanza, a dei piani strategici per eliminare la persona di “turno” tramite l’omicidio veicolare.


L'agente Richard Thomlinson

Perfezionati – all’epoca – per uccidere l’ex presidente serbo Slobodan Miloŝević, si basavano sull’accecare l’autista di un’auto in corsa, proiettando una forte luce da un particolare laser studiato e costruito ad hoc. Inoltre, secondo Thomlinson, il guidatore Henri Paul sarebbe stato un collaboratore dei servizi britannici. La polizia inglese, che nel 2004 aveva deciso di avviare una nuova indagine sulla morte di Lady D (Operazione Paget), coinvolgendo i più esperti detective e analizzando qualsiasi aspetto fino a quel momento tralasciato, considerò tuttavia le dichiarazioni dell’ex ufficiale ben poco attendibili, poiché il testimone avanzava soltanto congetture. Eppure, ad avallare la sua tesi, ci fu pure la versione dell’automobilista François Levistre che si trovava proprio davanti alla Mercedes e che osservò, dallo specchietto retrovisore, un forte lampo di luce dopo che un motociclista aveva tagliato la strada. La versione, somigliante alle altre ascoltate a caldo, non fu ignorata, per quanto non dimostrabile con delle prove tangibili.

Sebbene non ci fossero neanche segnali atti ad argomentare la presunta affiliazione di Paul ai servizi segreti, un particolare – non poco rilevante – venne alla luce a pochi minuti dalla disgrazia. Le tasche dell’autista contenevano un’ingente quantità di denaro e nel suo conto in banca erano presenti quasi 275 mila dollari. Certamente non pochi per chi – come l’uomo – percepiva una paga annuale di 35 mila dollari. Dove aveva trovato quel quantitativo di soldi? Perché teneva in tasca una somma così importante? I quesiti potrebbero essere soddisfatti in vari modi ma, a rendere quantomeno insolita la vicenda, si palesa un dettaglio anch’esso non ininfluente; ricostruendo infatti l’ultima giornata di Paul, ci sono quasi tre ore in cui sembrerebbe scomparso. Dov’era finito? Con chi, eventualmente, si era incontrato? Quando si mise alla guida della Mercedes era veramente ubriaco? Uscendo dal retro dell’hotel sfidò i paparazzi, che avevano fiutato il piano di fuga, dicendo “… non mi prenderete mai!”. Senza dubbio un comportamento bizzarro che ciononostante, sentendo i pareri dei presenti, non accrediterebbe l’elevato tasso alcolemico riscontrato attraverso gli esami. Oltretutto, dai valori emersi (fu rinvenuta la presenza al 20% di monossido di carbonio), gli sarebbe stato difficoltoso persino reggersi in piedi, figuriamoci mettersi alla guida: che ci sia stato uno scambio di provette?

È certo che la polizia francese, in quella notte d’agosto, commise delle mancanze imperdonabili sulla scena dell’incidente. La prima, in ordine cronologico, fu quella di non delimitare correttamente la zona che, di conseguenza, venne invasa e contaminata dalla moltitudine di paparazzi accorsi sul posto. Tra questi compaiono anche i primi sette fotografi messi in stato di fermo (per quarantotto ore invece delle consuete ventiquattro) ed accusati di omissione di soccorso; non si preoccuparono di chiamare gli aiuti ma scattarono, senza ritegno, pur di ottenere immagini esclusive. Quella sera, come del resto in tutte le occasioni che richiedevano la partecipazione della principessa, ci fu una vera e propria caccia spietata. Eloquenti, sotto questo aspetto, le parole del fratello di Diana, esternate dopo l’incidente:


I resti dell'auto

Ormai sembra chiaro che i proprietari e i redattori di ogni pubblicazione, che hanno pagato per ottenere fotografie indiscrete e che hanno incoraggiato avidi e spietati individui a rischiare tutto pur di sfruttare l’immagine di Diana, oggi abbiano le mani insanguinate”.

Tra misteri e crudeli cacciatori di gossip, non si fecero attendere altre leggerezze – forse non casuali – che inquinarono il luogo. Le autorità municipali ripulirono la strada già dalle prime ore del mattino togliendo, di fatto, la possibilità di esaminare tracce preziose ai fini dell’indagine. Non meno singolare si mostrò il comportamento del personale medico che raggiunse la Mercedes incidentata. L’impatto si verificò ventitré minuti dopo la mezzanotte e a soccorrere per primo la principessa fu il medico Frederic Mailliez, che in quella notte passava per caso con la sua macchina. Si accorse immediatamente delle importanti difficoltà respiratorie di Diana (che non aveva riconosciuto), ipotizzando una forte emorragia interna mentre i famelici paparazzi scattavano attraverso i finestrini. Le sollevò delicatamente la testa per aiutarla, rincuorandola che di lì a poco sarebbe arrivata l’ambulanza… non aveva ancora perso conoscenza. I soccorritori, tuttavia, estrassero il corpo della donna soltanto all’1:00 (un tempo spropositato malgrado la delicata situazione e il complicato tentativo di rianimarla dopo un primo arresto cardiaco). La stessa ambulanza, che doveva comunque mantenere una velocità ridotta per evitare le violente sterzate che l’avrebbero potuta uccidere sul colpo, non si recò al più vicino nosocomio militare (un chilometro dal tunnel) ma si diresse all’ospedale Pitié-Salpêtrière, ben più distante, e raggiungendolo alle 2:06: fu dichiarato il decesso alle ore 4:00. Che i tempi siano stati volutamente allungati per insabbiare un possibile omicidio? Beh, l’aspetto più sconvolgente deve ancora arrivare.

Alcune tracce di vernice, appartenenti ad una Fiat Uno (colore bianco Corfù), furono ritrovate sulla Mercedes, a seguito di un urto. La polizia francese si mobilitò a verificare i quarantamila possessori di auto intestate dello stesso tipo; dopo una lunga ricerca fu interrogato James Andanson, un fotografo freelance francese, che possedeva una vettura con le medesime caratteristiche.


James Andanson

Agli inquirenti disse di non trovarsi a Parigi in quella notte e che era andato a letto presto poiché l’indomani sarebbe dovuto partire per la Corsica. Gli agenti accertarono la veridicità delle affermazioni (anche se – a quanto pare – lo stesso Andanson ammise ad alcuni amici di essere stato presente nel momento dell’incidente) e non proseguirono oltre. Dunque, sospetti assopiti? Solo in parte, o meglio fino al 4 maggio del 2000 quando, in una zona isolata del Sud della Francia, fu ritrovato il corpo carbonizzato del paparazzo all’interno della sua macchina. Gli investigatori chiusero la vicenda attaccando l’etichetta del suicidio ma l’elaborazione ufficiale non convinse appieno. Il cranio di Andanson presentava due fori causati da altrettanti colpi di una pistola mai rinvenuta. Scomparvero pure le chiavi della vettura che era stata chiusa prima del rogo. Forse il fotografo poteva essere scomodo per qualcuno? Dubbi, solo dubbi che tuttavia appaiono meno oscuri (si fa per dire) dal momento in cui fu accertato un vecchio legame tra il paparazzo e le intelligence inglesi e francesi.

Tornando alla scomparsa di Diana, la domanda sorge spontanea: se si fosse trattato di omicidio, chi e perché avrebbe voluto la sua morte? Le piste non mancano. Il rapporto tra la principessa e il ricco imprenditore non godeva della benedizione della famiglia reale. Dodi era egiziano, quindi arabo e musulmano, e la regina non avrebbe visto di buon occhio la relazione. Inoltre, nell’estate del 1997, erano cominciate a circolare delle voci sulla presunta gravidanza di Diana. Certe supposizioni avrebbero trovato la conferma, in seguito al letale incidente, pure da Mohamed Al-Fayed che asseriva di averlo saputo dalla stessa Lady D. Se così fosse stato, William, il futuro erede al trono dopo Carlo, avrebbe avuto un fratellastro musulmano che – secondo alcuni – sarebbe stato una minaccia per l’incolumità della corona. A quanto pare la coppia si stava preparando per ufficializzare la loro unione e sul comodino della stanza di Dodi venne ritrovato l’anello che aveva acquistato per Diana, qualche ora prima, da una gioielleria Repossi. Una delle motivazioni, dunque, riguarderebbe l’ipotesi politico-religiosa e di conseguenza il tentativo di sabotare un imminente matrimonio. A onor di cronaca va detto che i medici legali, quando incisero l’utero di Diana dopo che ne fu constatato il decesso, non trovarono tracce di gravidanza. A rafforzare il dato ci fu la dichiarazione rilasciata da un’amica (Rosa Monckton) che era stata con lei dal 15 al 20 agosto. La testimone raccontò che durante il periodo la principessa del Galles ebbe il ciclo. Ciò non scioglie ugualmente tutti i sospetti. Il corpo di Diana, infatti, fu imbalsamato senza nessuna autorizzazione da parte della famiglia Spencer e quindi venne meno l’opportunità di prelevare del sangue dai fluidi corporei. Una mossa architettata con dolo?


C’è un altro aspetto che potrebbe aver spinto qualcuno all’omicidio. Lady D si batteva da anni per l’abolizione delle mine antiuomo ma tra i maggiori produttori delle stesse vi era proprio il Regno Unito; le sue lotte erano perciò dei potentissimi colpi diretti alle fabbriche inglesi. Importante, sotto questo aspetto, ciò che raccontò un’altra amica intima di Diana, Simone Simmons. Secondo quest’ultima, la madre di William ed Harry aveva iniziato a stilare, con l’intento di diffonderla, una lista sulla quale erano annotate tutte le figure pubbliche che traevano profitto dalla vendita delle mine. Non a caso, sempre secondo la sua versione, la principessa iniziò a ricevere telefonate minatorie.

Certamente Diana non possedeva la stima della famiglia reale, tanto che la regina, una volta appresa la notizia della scomparsa, aveva optato per dei funerali in forma privata. Lo stesso principe Filippo, morto nel 2021, giudicava pericoloso il comportamento di Lady D, senza dimenticarsi dell’ex consorte, il principe Carlo, che negli anni era stato messo in ombra dall’imponente figura della donna e dai bagni di folla che riceveva ovunque andasse. La principessa, del resto, lasciò un documento da lei redatto e diretto al suo avvocato (datato ottobre 1995) nel quale asseriva che il marito stesse provando a pianificare un ‘incidente’ in auto per farla fuori ed aprire, così, la strada al matrimonio con Camilla. Il legale consegnò il foglio a Scotland Yard ma la prova rimase in una cassaforte senza essere presa in considerazione. Degno di nota anche lo stralcio, pubblicato nel 2003 dal Daily Mirror e contenuto nel libro di Paul Burrel (maggiordomo fidato di Diana), nel quale lei predisse la propria morte in un evento violento e non dissimile da ciò che realmente accadde.

Forse quel che è stato bollato come un semplice incidente stradale nasconde realtà ben più oscure? Possibile che Henri Paul fosse stato complice del complotto senza sapere che, alla fine, anche lui avrebbe pagato con la vita? È plausibile che sia stato messo appunto un piano del genere quando lo stesso tragitto di Dodi e Diana, così come le stesse modalità utilizzate – infruttuosamente – per sbarazzarsi dei paparazzi, erano stati programmati solo all’ultimo minuto? Interrogativi leciti e al contempo, dopo quasi un quarto di secolo, sempre più difficili da soddisfare.


Lady D e Dodi nell'estate del 1997

L’Operazione Paget si concluse di fatto quando Mohamed richiese una nuova verifica del sangue di Paul ed ottenne lo stesso risultato, comprovato pure dall’esame del Dna. L’indagine generò un rapporto di 832 pagine e si concretizzò con l’omicidio colposo da parte dell’autista, in concomitanza ai comportamenti adottati dai paparazzi e rimbalzando al mittente le teorie della cospirazione. Alquanto esaustivo il discorso che il fratello di Diana pronunciò nel giorno dei funerali:

“… è ironico che una donna a cui era stato dato l’antico nome della dea della caccia sia stata, alla fine, la persona più perseguitata di tutta l’era moderna”.

C’è chi crede che l’incidente sia frutto di una messa in scena voluta dalla principessa (seguendo alcune teorie simili alla scomparsa di Elvis Presley) per farsi una nuova vita (magari negli States) e per cercare la serenità mai avuta. Riprendendo la poesia di Sir Elton John, sembra che Diana abbia vissuto la sua vita “come una candela al vento”. Forse è stato così ma ci sono delle certezze indissolubili.

Che il suo malinconico sorriso non verrà dimenticato.

Che la forza donata nei cuori dei più bisognosi non passerà invano.

Che le sue opere a difesa degli ultimi sono semi che continuano a germogliare – anche – attraverso i suoi figli.

Ecco allora che neanche il più brutale degli uragani spegnerà la più piccola e allo stesso tempo luminosa delle candele.

Goodbye England’s rose…


*Pubblicato dallo stesso autore per Mistero magazine, Dicembre 2021

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