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Donne Killer: gli orrori della "Saponificatrice" di Correggio


- di Luca Fazi - Quello di Correggio è uno dei tanti comuni italiani in cui la storia affonda le sue radici all’alba dei tempi. Alcuni ritrovamenti archeologici, difatti, dimostrano la presenza di insediamenti risalenti già al VI secolo avanti Cristo. Terra anche di cultura ed artisti, ha dato i natali a personalità destinate a lasciare un segno nel panorama nazionale. Due su tutte: il compianto scrittore Pier Vittorio Tondelli e il noto cantautore Luciano Ligabue. Eppure la città di Correggio, al di là del riguardevole patrimonio artistico-culturale, si lega anche al nome di una delle serial killer più efferate e discusse di sempre. Lo stesso Ligabue, nella sua primissima fatica letteraria Fuori e dentro il borgo, dedica una parte degli scritti alla donna che, tra gli anni trenta e quaranta del Novecento, scosse la serenità del borgo emiliano. All’anagrafe fu registrata con il nome e cognome di Leonarda Vincenza Giuseppa Cianciulli, ma la storia la consegnò a noi come “la saponificatrice di Correggio”. Prima dei delitti da lei commessi, però, facciamo un passo indietro.


Chi era Leonarda Cianciulli?

Nata nel 1894 a Montella, un comune in provincia di Avellino, è l’ultima di sei figli. Sin da piccola vive costanti disagi familiari, soprattutto con la madre Serafina Marano. Quest’ultima l’avrebbe partorita a seguito di una violenza subita all’età di quattordici anni. La donna, per tale motivo, trattò sempre con distacco Leonarda che tentò il suicidio in due occasioni tramite impiccagione (“… una volta mi salvarono e nell’altra occasione si spezzò la fune… la mamma mi fece capire che le dispiaceva di rivedermi viva”).

Ciò che accadde nel 1917 spezzò ogni legame tra le due. Leonarda, nonostante le fosse stato già imposto un marito dai familiari, decise di convolare a nozze con un impiegato del catasto, tale Raffaele Pansardi. Come trascritto dalla stessa Cianciulli nel proprio memoriale Confessioni di un’anima amareggiata (un libro di ben 700 pagine), la madre le lanciò una tremenda maledizione augurandole una vita tribolata e piena di sofferenze.

Alla iettatura si aggiunse la profezia di una zingara che le predisse la morte dei suoi futuri figli: è avvenne esattamente così. Leonarda, tra aborti e parti prematuri, perse effettivamente tredici figli; inutile dire che questo minò il suo equilibrio psicologico. Alla fine riuscirà a darne alla luce quattro grazie – secondo lei – all’intervento di una maga capace di vanificare la fattura.


Nel 1930, dopo il devastante terremoto del Vulture e dell’Irpinia, la coppia decise di trasferirsi a Correggio, al terzo piano di un’abitazione in Via Cavour 11.

I primi tempi furono complicati, ritrovandosi ad affrontare una pesante situazione economica, acuita inoltre dall’inflazione in continua crescita. Tuttavia Leonarda Cianciulli è una donna affabile, piena di iniziative, e riscuote quasi subito l’apprezzamento degli abitanti. In pochi ne conoscono la storia, mentre nessuno del paese è al corrente dei suoi precedenti guai giudiziari; tra truffe, furti e minacce a mano armata, la donna arrivò in Emilia con una fedina penale già compromessa. Grazie al commercio di abiti e mobili e con i risarcimenti concessi alle vittime del sisma, riesce a tirar su una cospicua somma di denaro che le permette di mantenere dignitosamente l’intera famiglia. Cifre extra giungono da alcune sue “passioni”; Leonarda, infatti, accoglie nella propria dimora diverse amiche cui legge la mano in cambio di lauti pagamenti.

Sembra a tutti gli effetti ben integrata nella nuova dimensione, tuttavia i fantasmi del passato riemergono con prepotenza e generano l’imponderabile. Mentre viene abbandonata dal marito (divenuto alcolizzato), l’imminente scoppio del secondo conflitto mondiale minaccia la vita dei suoi figli. In particolare quella del maggiore, Giuseppe, da sempre il preferito, che rischia seriamente di essere chiamato al fronte. La Cianciulli dichiarerà anni dopo di aver ricevuto in sogno la propria madre defunta, che le annunciava la morte di un figlio se non avesse dato in cambio altre vite.

Colta dal panico e pensando che la visione si riferisse al primogenito, non perse tempo per mettere in atto dei sacrifici umani. La ricerca passa giocoforza per l’ampia lista di signore che abitualmente frequentano casa sua. La prima vittima, in ordine cronologico, fu la settantenne vedova Ermelinda Faustina Setti che non aveva perso affatto la speranza di ritrovare un amore: è su questo lato che la Cianciulli andrà a colpire.


Ermelinda Faustina Setti

Le confida di un uomo di Pola, ben disposto a sposarla a patto che lo raggiunga nella sua città. Con la scusa che l’ipotesi di un futuro marito avrebbe alimentato le chiacchiere di paese, la convinse a mantenere il riserbo sino al 17 dicembre 1939. In quello stesso giorno, fissato per il presunto viaggio, la Cianciulli invitò a casa la malcapitata per le ultime raccomandazioni e per aiutarla a scrivere (la Setti era semianalfabeta) una lettera che avrebbe spedito ai parenti in un secondo momento. Inoltre, approfittando della buonafede dell’anziana, la convinse a farsi firmare una delega per gestire i suoi beni: la poveretta stava mettendo nero su bianco la propria condanna a morte. Mentre era seduta al tavolino, Leonarda Cianciulli la sorprese di spalle con un colpo di ascia, uccidendola all’istante. Il primo sacrificio era stato compiuto, ma il trattamento riservato al cadavere supererà di gran lunga la freddezza dell’omicidio. L’assassina, infatti, sezionò il corpo in ben nove parti; le gettò tutte all’interno di un pentolone al quale aggiunse cinque chilogrammi di soda caustica. Era la stessa procedura impiegata per la preparazione del sapone (da qui l’appellativo Saponificatrice). I resti si sciolsero, creando una poltiglia melmosa che la donna svuotò in un pozzo limitrofo; per quanto concerne il sangue, lo raccolse attendendo che coagulasse ed infine lo fece seccare al forno. Una volta divenuto come desiderava, lo mescolò con farina, zucchero, margarina, cacao e latte, ricavandone dei pasticcini che offrì al vicinato. Li mangiò lei stessa insieme con il figlio Giuseppe: tutto rientrava nel rito per scacciare la maledizione e preservare il primogenito. Il sacrificio della Setti, tuttavia, non è sufficiente.


Francesca Clementina Soavi

È il 5 settembre del 1940 quando, nella trappola della serial killer, ci finisce l’insegnante d’asilo Francesca Clementina Soavi. Questa volta la saponificatrice promette un posto di lavoro a Piacenza in un collegio femminile. Il modus operandi non si discosta dal primo omicidio. La vittima viene esortata a non avvisare nessuno e a redigere delle cartoline da inviare successivamente. A spedirle invece, sarà il figlio Giuseppe che va di persona nel piacentino per inscenare la farsa. Intanto la Soavi viene massacrata a colpi di mannaia e il corpo, smembrato, diventa materiale per il sapone. Il sangue, invece, è impiegato per la creazione di invitanti biscotti – si fa per dire – da servire agli ospiti. Unico particolare in più. La vittima, essendo piuttosto corpulenta, non rientrava con tutti i pezzi nel pentolone; dunque le fu decapitata la testa e messa in un sacco nero. Anche in questo caso, la Cianciulli era riuscita ad ottenere la concessione per la vendita di tutti i beni.

Se è vero che non c’è due senza tre, l’omicidio di Virginia Cacioppo calza a pennello per autenticare il noto proverbio.


Virginia Cacioppo

È il 30 novembre del 1940 quando la cinquantanovenne, ex soprano di riguardevole successo, finisce nel pentolone della serial killer. La proposta di un lavoro come segretaria in un teatro di Firenze e, soprattutto, la speranza di un possibile ingaggio per riprendere una carriera avviata al tramonto, bastarono per trarla in inganno. Nel proprio memoriale, la Cianciulli scriverà:

“… la sua carne era grassa e bianca… vi aggiunsi un flacone di colonia e ne vennero fuori delle saponette cremose. I dolci furono migliori, quella donna era veramente dolce”.

Tre vittime. Tre donne legate da alcuni particolari non trascurabili. Non sono più giovani, quindi meno pericolose da affrontare fisicamente. Tutte e tre coltivano ancora dei sogni – dal campo amoroso a quello lavorativo – e pertanto presentano dei punti deboli. In aggiunta, il conflitto bellico favorisce l’operato della Cianciulli. Sono anni in cui il quotidiano conteggio dei morti tocca numeri terrificanti e la sparizione delle tre donne non mobilita il consueto interesse. Tra chi perde la vita a causa della guerra e chi, invece, cerca di rifarsene un’altra affrontando veri e propri viaggi della speranza (magari per raggiungere l’America), sono molteplici le persone che scompaiono nel nulla. Sembrerebbe, dunque, che tutto proceda a favore della serial killer, eppure sarà l’ultimo delitto a smascherarne le macabre azioni.

Albertina Fanti, cognata della Cacioppo, trova alquanto insolito che la donna sia sparita così improvvisamente, senza dirle nulla nonostante il forte legame che le unisce. Non ci vede chiaro e decide di denunciare la sparizione. Il maresciallo di Correggio, tuttavia, non porta avanti le indagini per insufficienza di prove e perché, ad onor del vero, crede che dietro la partenza non ci sia nessun mistero ma assoluta volontà: forse un amante con cui scappare? Eppure la cognata non si dà per vinta e, attraverso indagini private, scopre che la stessa sorte è toccata ad altre due donne del paese – la Setti e la Soavi, per l’appunto – in un lasso di tempo non troppo vasto. Nel frattempo diverse voci arrivano alla questura di Reggio Emilia, tanto che il funzionario preposto, il commissario Serrao, apre l’inchiesta. Da alcune indiscrezioni si ricostruisce ad esempio che la Setti, il giorno della sparizione, sarebbe stata vista nel salone di un parrucchiere e ad alcuni dei presenti avrebbe riferito della partenza per Pola. Innumerevoli sono i quesiti senza risposta, ma qualcosa attira l’attenzione degli inquirenti.

Siamo nel gennaio del 1941 quando, allo sportello di una banca di Reggio Emilia, si presenta Don Adelmo Frattini, parroco di una frazione di Correggio e tesoriere del vescovo. Si reca all’istituto di credito per cambiare un pacchetto di titoli; tra questi c’è un buono del tesoro serie H numero 241985 che appartiene a Virginia Cacioppo. Il sacerdote viene immediatamente fermato dalle forze dell’ordine; durante l’interrogatorio si discolpa asserendo che il titolo gli era stato consegnato da un certo Spinabelli, produttore di formaggi. Convocato anche quest’ultimo, l’uomo dichiara di aver ricevuto il buono del tesoro da Leonarda Cianciulli, della quale dice di essere amico (i due, in realtà, hanno una relazione). Per il commissario Serrao non rimane altro che ascoltare la versione della donna che, senza tradire emozioni, racconta di aver ricevuto la visita della Cacioppo prima della partenza per Firenze e di essere stata incaricata dalla stessa per la vendita dei propri bene. Il buono del tesoro sarebbe valso come un pagamento per la commissione… ma il resoconto non convince nessuno.

Si procede con la perquisizione della sua dimora e in una camera da letto vengono ritrovati degli abiti dell’ex soprano; ogni vestito appare tinteggiato, come se fosse un palese tentativo di rimuovere delle prove incontrovertibili. Ma non solo! Nel solaio compare una dentiera. Non si possiede la certezza che appartenga alla Setti, ossia la prima delle donne scomparse, ma accanto ad essa c’è un mucchietto di ossa umane: che siano proprio della vedova? La Cianciulli mantiene la calma e non cede alle pressanti domande del commissario; le sue risposte non cadono mai in contraddizione e si giustifica con il mancato ritrovamento dei corpi, e quindi l’assenza di prove inconfutabili.

Ma della stessa pasta non si dimostra il figlio Giuseppe che, nell’ansia dell’interrogatorio, fa un passo falso e confessa di aver spedito le cartoline da Pola a nome della Setti. A quel punto la serial killer, con il timore che il figlio adorato pagasse per colpe ben più gravi, ammette tutti e tre delitti.


I ferri del "mestiere" usati dalla Cianciulli

Con accuratezza, riporta le brutali modalità impiegate durante gli omicidi. All’accusa che tutto fosse stato organizzato per estorcere denaro, la Cianciulli nega con fermezza; le uccisioni, secondo la sua versione, non sono altro che dei sacrifici umani per proteggere i propri figli dalla maledizione (“Non potevo permettermi di perdere anche loro”). Gli inquirenti nutrono ancora dei forti sospetti. Non credono che la donna sia riuscita a pianificare ogni particolare senza l’aiuto di nessuno. E poi, le sue dichiarazioni così cinicamente dirette e legate a pratiche magiche: che siano un tentativo per mostrarsi pazza? In effetti, in quegli anni, vigeva ancora la pena di morte; l’unico sistema per evitare la forca era proprio quello di esternare degli squilibri mentali.

Se questo fu il suo intento, la Cianciulli ottenne il risultato sperato poiché trascorse diciannove mesi (tra il 1941 e il 1943) nell’ospedale psichiatrico di Aversa. Nella struttura campana diede alla luce, verosimilmente, il proprio memoriale nel quale trascrisse la follia dei propri gesti; di certo, considerando che avesse soltanto la terza elementare, è lecito pensare che il documento sia stato una mossa strategica della difesa, per ottenere l’infermità mentale e al contempo discolpare il figlio Giuseppe.


Test psicodiagnostici sulla Cianciulli

A causa della seconda guerra mondiale, il processo viene ufficialmente sospeso e rimandato alla fine del conflitto. Lo sviluppo giuridico ci rimanda perciò al 12 giugno del 1946. In un’Italia divenuta Repubblica, le colonne dei più celebri quotidiani nazionali – e non solo – tornano ad occuparsi anche di cronaca nera dopo la censura fascista. Seppur l’intero popolo italiano sia uscito distrutto dal conflitto, le vicende della donna-serial killer hanno già fatto il giro della penisola e riscosso un’alta attenzione mediatica. Sarà tuttavia un processo lampo. Dura una decina di udienze e si conclude nel giro di un mese. Del resto gran parte dei tribunali lavorano a pieno regime, ogni giorno, per le condanne esemplari da infliggere ai collaborazionisti e criminali di guerra. Leonarda Ciaciulli, intanto, si presenta al processo dichiarando in aula:

Sono venuta a pagare il mio debito. Torturatemi, fucilatemi… sarebbe il più bel giorno della mia vita”.

L’accusa spinge per l’omicidio a scopo di rapina, con il figlio Giuseppe accreditato come complice. Durante gli atti, la saponificatrice chiede addirittura (ma non ottiene) la possibilità di avere tra le mani un cadavere per mostrare come aveva smembrato i corpi. L’accusa invoca l’ergastolo per lei e 24 anni di reclusione per il figlio; la difesa ribadisce con l’infermità mentale e la totale assenza di prove per Giuseppe. Alla fine la sentenza “sorride” a questi ultimi: il tribunale di Reggio Emilia condanna la serial killer a 30 anni di reclusione. Con il beneficio della seminfermità mentale, li trascorrerà interamente nei manicomi. Assoluzione piena per il figlio, nonostante l’ammissione di aver spedito quelle cartoline e le testimonianze di alcuni vicini che lo avevano visto gettare un sacco nero nella notte del secondo omicidio (presumibilmente contenente la testa mozzata della vittima). Leonarda Cianciulli, alla lettura della sentenza, si esibì in un urlo di gioia mentre abbracciava forte il primogenito.


L'abbraccio finale tra Leonarda e il figlio Giuseppe

Terminò così una delle vicende di cronaca nera più accattivanti di sempre, che soltanto la contemporaneità di una guerra mondiale ridimensionò per portata mediatica. Anche dentro gli ospedali psichiatrici (da Aversa a Perugia, fino all’ultimo di Pozzuoli), la serial killer riuscì a far parlare di sé. Poco dopo la sentenza disse:

Sarò libera nel 1970”.

Forse un caso fortuito o magari delle reali capacità paranormali, sta di fatto che Leonarda Cianciulli lascerà questo mondo il 15 ottobre del 1970, per apoplessia celebrale. Nessuno ne reclamò i resti tanto che il corpo finì in una fossa comune: non fu più ritrovato, come i cadaveri delle innocenti donne uccise dalla stessa. Negli anni del manicomio aveva conservato l’abitudine a preparare pasticcini e biscotti che poi, con gentilezza, offriva alle altre detenute. Stando ai racconti nessuna accettava di assaggiarli ma il motivo del rifiuto… beh, questo no, non è di certo un mistero.

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