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Indro Montanelli: la penna contro i potenti

  • Immagine del redattore: Luca Fazi
    Luca Fazi
  • 22 lug 2019
  • Tempo di lettura: 7 min

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- di Luca Fazi - Sarebbe ingrato, oltre che di gran lunga errato, non riconoscere Indro Montanelli come il più grande giornalista italiano del Novecento e con tutta probabilità andrebbe a ragione allargato anche il periodo preso in esame. Gli scritti del talento toscano hanno avuto sempre una semplicità letteraria sconosciuta ai più che, badate bene, non sconfinava mai in pochezza linguistica bensì in una ricercata cura stilistica che fosse accessibile a tutti, o quasi. Magari quella limpidezza dei concetti l’aveva ereditata dalla sua terra, la sua amata Fucecchio, ricca di persone umili che non amano grandi giri di parole o singolari terminologie ma sanno andare dritti al punto. Ecco, anche questo aspetto contraddistingueva la penna (o per meglio dire la sua inseparabile Olivetti Lettera 22) dello scrittore, che poteva essere tagliente, anche irriverente, sempre però con cognizione di causa. Documentarsi fino allo sfinimento, pizzicando le corde della maniacalità, riguardava invece il suo personalissimo senso di professionalità; pure e in particolar modo nelle vesti di direttore, quando la notte veste il suo abito più nero puntualmente ricontrollava al dettaglio ogni riga della prima pagina e non solo. D'altronde era coerente con il suo modo di fare e proporre giornalismo, ovvero offrire il meglio agli unici giudici che gli stavano a cuore: i lettori. Secondo la sua opinione, l’onestà intellettuale e il rispetto per il pubblico gli avrebbero mantenuto alte, se non aumentate, le tirature dei giornali; discorso fondamentalmente corretto e pressappoco trasferibile nella realtà, eccezion fatta per “La Voce”, il quotidiano fondato e diretto dallo stesso Montanelli che riuscì con fatica a spegnere l’unica candelina della sua breve vita. “Abbiamo creato un giornale di una destra liberale che in Italia non c’è più… o forse non c’è ancora”, fu la spiegazione che diede Indro all’indomani del clamoroso insuccesso editoriale.


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Il primo numero de La Voce

Non bastarono i 55 cronisti su 77 (fra questi Severgnini e Travaglio) che da “Il Giornale” passarono fedelmente in quella nuova avventura; tempi ormai mutati e forse il “Montanellismo” odorava troppo di vetusto. In realtà, siamo nel 1995, quel giornalista più vicino ai novanta che agli ottanta ebbe ancora nuove ed allettanti proposte. Alla fine, declinandole alcune per motivi etici e coerenti con la propria personalità, tornò al suo non primo ma grande amore, il “Corriere della Sera”, accettando di curare la rubrica “La Stanza di Montanelli” dove si adoperava a fare una delle cose che preferiva maggiormente: “colloquiare” con i lettori. Non avrebbe mai abbandonato la direzione de “Il Giornale” ma l’accordo non scritto con Berlusconi (che dalla fine degli anni settanta a salire era diventato un passo alla volta azionista di maggioranza, dopo la fine del finanziamento da parte della Montedison) era venuto meno, ovvero quel “tu proprietario-io padrone” nel quale Indro non aveva nessuna intenzione di farsi condizionare a riguardo delle sue scelte giornalistiche. I rapporti fra i due rimasero decentemente saldi fino a quando il Cavaliere decise di scendere in campo, non nascondendo più l’intenzione di dar vita al partito Forza Italia che da lì a poco avrebbe riscosso un vasto successo con le elezioni del 1994. Montanelli, con stile e in linea con il proprio pensiero, si dimise dichiarando che il Berlusconi politico non sarebbe durato a lungo, bollandolo come inadatto in quella nuova veste: uno dei pochi errori di valutazione commessi dalla penna di Fucecchio.


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Montanelli e Berlusconi

Indro era un liberale-conservatore, o come lui stesso si definì “anarchico-conservatore”, uomo di destra e dichiaratamente anticomunista. Poco più che ventenne lavorava per “L’Universale” (uno dei tanti periodici fascisti) ma si distingueva nello scrivere articoli non per forza a favore del regime; insomma, una specie di voce fuori dal coro esternata già da chi, malgrado la giovanissima età, non nascondeva una forte personalità. In un suo pezzo prese le difese di un ragazzo ebreo e Mussolini in persona, ancora lontano dalle leggi razziali, si complimentò per quelle righe elaborate: “Il razzismo è una roba da biondi”. Solo che in dittatura si fa presto a cambiare opinione e ciò che ieri veniva accettato può darsi che oggi diventi non tollerabile. Un esempio? Montanelli mandò alle stampe un articolo inerente alla battaglia di Santander ma invece di elogiare le truppe italiane (magari enfatizzando qualcosa che in realtà non c’era stato), minimizzò il valore nostrano sottolineando piuttosto quello rivale. Tessera di partito immediatamente ritirata (ad Indro non dispiacque affatto) e fu costretto così ad emigrare (alla fine finì a Tallin) tornando però già dopo un anno nel suolo italico. Nel ’38 era riuscito ad entrare nel Corriere della Sera, pur senza assunzione ufficiale in quanto fuori dal regime, ma quando l’Italia cadde in mano ai tedeschi fu preso dai nazi-fascisti e condannato a morte nel ’44. Qualche conoscenza utile e forse un Dio che non aveva intenzione di privarci di un tale talento, Montanelli venne prelevato dal carcere di San Vittore (dove conobbe anche Mike Bongiorno) un giorno prima della fucilazione prevista. Tempi duri quelli del secondo dopoguerra per il giornalista, che dovette affrontare l’ostilità di diversi colleghi a causa della vecchia connivenza con il Fascismo. Rimaneva solo di rimboccarsi le maniche e ripartire quasi da zero, conquistandosi ciò che gli spettava solo con l’aiuto della sua innata classe. Nel frattempo si cimenta anche su altri campi, mostrandosi sia come drammaturgo (“… quel mondo non mi volle”) che affidabile storico. Scrisse, tra l’altro, “I sogni muoiono all’alba”, opera teatrale divenuta poi un film dove compare anche l’amico e indimenticabile attore Renzo Montagnani. La produzione dal versante storiografico (attività coltivata fino agli ultimi giorni e condivisa con Roberto Gervaso) fu fertilissima, a cominciare da “Storia di Roma” e “Storia dei Greci” fino a trattare l’epoca moderna post-Tangentopoli con i suoi personaggi principali. Durante l’esperienza al Corriere ebbe l’onore di intervistare nientemeno che Papa Giovanni XXIII, prima volta in assoluto che un pontefice rilasciasse dichiarazioni ad un giornale laico. Il quotidiano però, a partire dai primi anni settanta (con la nomina a direttore di Piero Ottone), cominciò a strizzare l’occhio verso sinistra ed Indro si sentì in gabbia in quell’ambiente ormai a lui estraneo. Qualche articolo non amato dai piani alti e il “radical chic” (rispolverato e usato per la prima volta in Italia) per definire l’atteggiamento della collega Camilla Cederna, furono gli ultimi segnali di insofferenza mostrati verso la nuova direzione: Montanelli lasciò il Corriere della Sera. Che i rapporti con Piero Ottone fossero impossibili da riconciliare fu evidente anche all’indomani dell’attentato che Indro subì ad opera delle Brigate Rosse; il suo nome completamente omesso nel titolo della prima pagina fu una bassezza che lo scrittore toscano non esitò poi a sottolineare in chiave altamente negativa e polemica. Pure in quell’episodio tirò fuori tutta la sua forza d’animo mista ad un forte senso d’orgoglio. Il 2 giugno 1977 Montanelli fu gambizzato dai malviventi, ricevendo quattro colpi (due alla gamba destra, uno a quella sinistra e un altro sulla natica) degli otto sparati ma, nonostante la situazione critica, si aggrappò con vigore ad una cancellata e non si accasciò a terra.


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Montanelli all'interno dell'ambulanza, appena subito l'attentato delle BR

Disse: “… fu lì che mi ricordai gli anni da piccolo balilla. Mussolini ci aveva insegnato che un uomo vero deve vivere e morire in piedi”. Per lui il Fascismo andava condannato e allo stesso modo la figura di Mussolini, ma non rinnegò mai i suoi “stupidi e bellissimi vent’anni in camicia nera”; mostrò semmai disgusto verso gli stessi coetanei che con lui avevano condiviso la ventata di ottimismo inizialmente portata dal regime per poi, a “giochi” finiti, prenderne le distanze come se non ne avessero mai fatto parte. La compattezza morale, una sorte di coerenza etica, per Indro veniva prima di tutto e avrebbe preferito ammettere e condannare un proprio errore che rinnegare un suo atteggiamento. Si riteneva un fortunato per aver potuto svolgere il mestiere più bello al mondo, l’unico, a suo dire, che sarebbe stato in grado di fare. Rimproverava i colleghi più giovani che cercavano di scrivere articoli senza disturbare la “sensibilità” di qualcuno: “Se scrivi cose che non fanno arrabbiare nessuno significa che sono pezzi del cazzo”. Per lui quelle righe nere di inchiostro uscivano fuori come un’esigenza fisiologica, una sorta di liberazione per contrastare tutto il marcio quotidiano che vedeva, se non prima, sicuramente meglio degli altri. Fu attaccato dalle femministe per la questione del madamato (quel termine “dolce animalino” infastidì non poco, anche se andrebbero valutati i tempi) quando si arruolò come volontario durante la guerra d’Etiopia e le stesse, di recente, si sono rese protagoniste di quello strato di vernice rosa gettato sulla statua di Indro, nei giardini pubblici di Porta Venezia a lui dedicati.


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La statua dedicata a Montanelli, imbrattata di vernice rosa

Montanelli morì a 92 anni, nel 2001, per delle complicazioni avvenute dopo un’infezione alla vie urinarie; qualche giorno prima era riuscito a dettare il suo necrologio che non poteva non mostrare coloriti tratti di originalità. Nella camera ardente, ultimo ad andarsene, fu proprio uno dei due brigatisti colpevoli dell’attentato del ‘77; lo scrittore li aveva perdonati da tempo come una ristretta cerchia di uomini è in grado di fare. Come disse la giornalista Tiziana Abate, “per Indro il Corriere fu un padre, il Giornale un figlio e La Voce un nipotino discolo, difficile da gestire”. Tutte avventure finite non nel migliore dei modi ma alle quali aveva dato tanto… ricevendo in misura assai minore. Nell’ultimo periodo si trovava ad avere il solito incubo: lui che faceva ritorno a Fucecchio ma all’entrata della sua vecchia dimora, aldilà delle inferriate, si rispecchiava in un Indro caratterialmente diverso. Era la proiezione di ciò che sarebbe diventato se non fosse mai andato via dal paese e tutto ciò gli trasmetteva angoscia… come se si sentisse colpevole per aver abbandonato le sue origini. Il Montanelli che vedeva era severo con lui, non aveva piacere di parlagli e cercava in tutti i modi di mandarlo via.


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Indro Montanelli negli ultimi anni di vita

L’ultima dura prova da affrontare fu quella inevitabile e democratica per tutti: la morte. Temeva come nient’altro di non apparire lucido negli estremi respiri, mostrandosi diverso da ciò che realmente era. Pregava e sperava di poter rimanere impeccabile e con dignità fino alla chiamata eterna, lasciato in pace dalle frequenti depressioni che in vita gli avevano fatto una compagnia non gradita. Montanelli non è solo quel “Turiamoci il naso e votiamo DC”, o la raccolta fondi per i terremotati del Friuli, e neanche il rifiuto alla carica di senatore a vita propostagli dal Presidente della Repubblica Cossiga: è stato molto di più e forse pure i suoi scritti non saranno mai esaustivi a riguardo. Magari sta continuando a prendere nota dei fatti terreni, con la speranza che abbia sempre a disposizione una scrivania celestiale e non debba accartocciarsi su sé stesso battendo a macchina ciò che la sua illuminata mente gli suggerisce. Circondato da prorompenti segretarie (le belle donne gli sono sempre piaciute) e con “The Voice” Frank Sinatra come sottofondo musicale che gli fa gli auguri per una sua nuova creatura. Giusto una pennichella di quindici minuti, non di più, tanto per rinfrescare la mente e poi di nuovo all’opera per scrivere capolavori.


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Nella redazione de Il Corriere della Sera, sopra una pila di giornali

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