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Guido Pettinelli: il ricordo di una persona buona



- di Luca Fazi - “Guido è l’amico mio!”

Poche parole. Un pensiero conciso ma, al contempo, inequivocabile. Una frase ripetuta, a volte, quasi come un mantra. Sporadiche varianti ammissibili: tra queste, “Guido è una persona buona”.

L’immaginario pendolo emotivo non contemplava oscillazioni di diversa natura. Guido era per me un amico, pur essendo rilevante – enorme – la distanza anagrafica che ci divideva. Poteva, piuttosto, palesarsi come un nonno anche se, noi due, non eravamo parenti.

I ricordi legati a lui mi trascinano, giocoforza, in quei momenti estivi trascorsi nella frazione gualdese di Vaccara. Hanno il suono della Subaru Justy mentre percorre, con dentro me, il tratto di strada che conduce alla “piazzetta” e, finecorsa, verso l’abitazione della mia nonna paterna. Possiedono il rassicurante profumo del bucato steso, come stendardi, su dei fili che hanno visto giorni migliori. Hanno la spensieratezza di calcolatrici inoperose, di temi rimasti senza svolgimento e di zaini dell’ultimo giorno di scuola non ancora disfatti.

Mentre aprivo lo sportello della macchina, mi capitava sovente di incrociare con lo sguardo quella sagoma inconfondibile. Alto, con la schiena dritta e una postura perfetta: Guido, tra il mondo dei grandi, spiccava. Non solo fisicamente. Nei modi, negli atteggiamenti, nella camminata: comunicava signorilità in ogni aspetto. Ricordo ancora quando mi chiamava, scandendo il mio nome con accuratezza e tradendo un’inflessione differente dalla solita che ascoltavo nel quotidiano. All’epoca non sapevo distinguere quel buffo “accento” folignate ma alle mie orecchie, di certo, gli attribuiva un ulteriore carico di simpatia.

Era molto semplice entrare in sintonia con Guido. Voce calda, toni sereni e cuore d’oro: ti metteva a proprio agio. Già l’essere chiamati per nome, con particolare tenerezza, accorciava il divario generazionale. Non era saltuario, infatti, che molti adulti si rivolgessero ai bambini con degli approcci freddi, articolati dai vari “oh, boccia!” e linguaggi ben poco ortodossi. Guido no. Sotto quei candidi baffoni, che contrastavano cromaticamente con la pelle sempre abbronzata, filtravano – puntuali – parole al miele. Quelle di chi ha più anni di te, ma non te lo fa sentire. Quelle di chi sa rapportarsi con i bambini, perché conosce il linguaggio dell’amore che supera qualsiasi barriera ed è universale.

Ogni tanto mi riaffiora il ricordo di quando mi teneva la mano nella sua e ci incamminavamo in direzione del vecchio spazio che ospitava il “gioco delle bocce”. Mentre percorrevamo la piccola discesa (visibile nella foto di copertina), mi chiedeva della scuola, degli amici e – più in generale – delle mie giornate, con lo stesso interesse e la medesima dolcezza con cui un nonno si rivolge al proprio nipotino.

Sarà che Guido arrivava al cuore.

Sarà che le persone buone penetrano l’anima.

Sarà che non ho mai conosciuto i miei nonni eppure, con lui accanto, avevo la percezione che Dio volesse rammendare quella mancanza concedendomi il privilegio di conoscere un uomo così speciale.

Ecco, quando rinverdisco nella mente quei tragitti condivisi, penso alla scena come se la guardassi di spalle. Un me-spettatore che si ritrova davanti ad un momento così intimo e al contempo idilliaco, magari impreziosito dalla luce di un sole estivo che accompagna il tardo pomeriggio. Come in un’opera di Guttuso, ogni cosa al proprio posto. Ogni cosa segue un ordine ben preciso e rispecchia la nuda realtà. Non possiedo fotografie di quegli attimi… purtroppo. Tutto è impresso nel mio cuore che anticipa, neanche a dirlo, la mente. Spero di poterne mantenere, il più a lungo possibile, i tratti caratteristici.

Mi rivedo bambino mentre rispondo a quella serie di domande; ne avverto, dall’altra parte, il reale interesse e la bellezza di chi ti dona ascolto. Sempre con la mano stretta alla sua. Sempre con la testa all’insù per osservare, timidezza permettendo, il viso di quel premuroso interlocutore così tanto alto.

Conservo nella memoria quei pomeriggi trascorsi con lui al campo di gioco, tra i suoni di ghiaccioli spacchettati e di bocce accostate con colpi ben calibrati. E poi, ancora, ulteriori immagini degne del più autentico neorealismo. Le camicie sbottonate per l’afa che facevano intravedere i petti villosi e ingrigiti dei più, con tanto di magliette della salute al seguito. I diversi outfit che si dividevano, immancabilmente, tra chi sfoderava “i pantaloni buoni della domenica” e chi proponeva il pantaloncino sportivo; quest’ultimo si collegava quasi sempre – con buona pace dei vari Valentino, Armani e del compianto Balestra – ad una sorta di sandali francescani con tanto di calzini bianchi di spugna (… e i tedeschi muti!). Potere di chi non seguiva la moda e alla parola “influencer” associava qualche malanno stagionale… non aveva, in fin dei conti, tutti i torti.

Ed ancora, anziane spettatrici con il fazzoletto in testa a mo’ di bandana e pugni piantati sui fianchi, che includevano gli sguardi minacciosi rivolti ai rispettivi mariti. L’occhiataccia non ammetteva fraintendimenti:

Quanno t’arvenghi? Movete che mo’ è ora de cena!”.

Più era netta l’angolatura dei gomiti e maggiormente si rivelava l’incazzatura. Tutte scene che si ripetevano in loop durante la bella stagione; quella che, più delle altre, da sempre e per sempre, offre ricordi indelebili.

Guido era una persona di cuore, generosa, e non mancava mai di offrirmi, tutte le volte, un Cornetto Algida o una Coca-Cola. Con molte persone rifiutavo ciò che mi veniva proposto, sempre a causa della timidezza ma lui, anche in questo, era diverso: sapeva offrire. Ecco, dunque, che “una bottiglia per ‘sto ragazzo” veniva prontamente pescata dalla bacinella di plastica che accoglieva, nel fresco dell’acqua, le altre colleghe.

Alla fine prendevamo la strada del ritorno, lasciandoci alle spalle l’allegra atmosfera mentre giungevano, quasi all’unisono, le varie urla di gioia per un punto fatto o le generalità del santo di turno interpellato per quello appena perso. Affacciandomi dal finestrino della Subaru, salutavo Guido con la gratitudine per la bella giornata trascorsa e la speranza di rivederlo presto. Di rivedere quella persona buona.

Gli ultimi anni della sua vita li trascorse proprio vicino a casa mia. Sia indossando un vestito elegante o una comoda tuta sportiva, manteneva sempre quella signorilità e raffinatezza: nei movimenti, così come nel parlare. Malgrado qualche acciacco e alcuni problemi alla vista, non negava mai un sorriso. Lo stesso che gli faceva distendere i folti baffi bianchi e capace, fino all’ultimo, di donare pace a chiunque lo incontrasse durante le passeggiate (nelle quali era accompagnato amorevolmente dalla figlia).

Quando ripenso a Guido mi tornano alla memoria soltanto dei momenti felici. Giornate serene passate in compagnia di quell’uomo che sapeva essere amico e nonno allo stesso tempo. Ripenso al mio sguardo che proiettavo in alto nel tentativo di osservarne il viso. Tuttora, per rivolgergli una preghiera, mi ritrovo a posizionare la testa all’insù e a fissare il loculo in cui riposa in pace. Come quando, nel pensarlo, oriento gli occhi in direzione del cielo.

Lassù.

Sempre in alto.

E non me ne meraviglio: è proprio lì – ne sono certo – che risiedono le persone buone. Le persone come Guido Pettinelli.



Alle anime che sanno lasciare un segno…

Ai distributori umani di bontà…

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