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Una vita tra i pali - Ivan Aiardi racconta



- di Luca Fazi - Quattro presenze in A sono state sufficienti per ritrovarsi davanti a dei campioni del calibro di Buffon, Boghossian, Thuram, Cannavaro, Crespo, Cafu, Aldair, Totti, Verón, Mihajlović, Montella e Balbo (solo per citare le star). La lista da dream team prenderebbe dimensioni inimmaginabili se si sommassero i talenti ammirati dalla panchina.

La carriera dell’ex portiere Ivan Aiardi, classe 1971, è una di quelle costruite mattone su mattone, impreziosite dal valore di chi si è conquistato tutto con il sacrificio e senza ricevere sconti. Da Monza a Lecce, passando per Andria, Messina, Gualdo Tadino ed infine Roseto degli Abruzzi: tante le tappe, nel mondo del professionismo, che hanno visto protagonista il portiere milanese. Ne abbiamo ripercorse alcune attraverso quest’intervista che Ivan ci ha gentilmente concesso.


Figurina Panini: Serie A '97/'98

Quando nasce la passione per il calcio?

“Diciamo che ha preso vita in una maniera non molto diversa da quella di tanti altri della mia generazione. Abitavo vicino all’oratorio del paese e lì trascorrevo le giornate insieme agli amici... il calcio era la quotidianità. Tutti i giorni, dalle due alle otto del pomeriggio, giocavamo con il pallone. Ormai gli oratori aperti si sono ridotti drasticamente ed è davvero un gran peccato”.

E l’amore per il ruolo di portiere?

“Beh, quando mi sono stancato di rincorrere il pallone! Ricordo che fu qualcosa comandato dall’istinto, una passione che ti prende di colpo. È il ruolo più importante per le responsabilità che richiede e già questo fattore mi piaceva; inoltre, per fare il portiere, servono qualità mentali e una grande personalità”.


Come sei riuscito ad emergere tra i tanti che coltivavano lo stesso sogno?

“Giocavo nella squadra del paese e spesso venivano organizzate delle amichevoli con i settori giovanili del Milan, del Monza e dell’Inter. Certi incontri godevano della presenza di numerosi osservatori e così, intorno ai nove anni, fui selezionato dal Monza. La società biancorossa poteva vantare una professionalità di altissimo livello, con dirigenti che poi hanno fatto la storia; il direttore sportivo della prima squadra era Ariedo Braida e nel corso degli anni ottanta, come direttore generale, figurò anche Beppe Marotta. All’epoca, oltre ai giocatori di movimento, uscirono tanti portieri che poi si sono ritrovati saldamente in Serie A, come Antonioli e Battistini o i più giovani Castellazzi ed Abbiati”.


A Monza l’esordio tra i professionisti, nella stagione 1990/1991: che ricordi hai?

“Senza dubbio fu una sensazione positiva e dettata dall’intento di strappare una prestazione importante. La voglia di fare e il desiderio di imparare non mancavano di certo e, per quanto mi riguarda, non sono mai mancate neanche dopo”.


Poi il biennio con il Corsico, in Serie D…

“Sì, andai a giocare in un club dell’hinterland milanese e durante il primo campionato subii in parte la situazione per esser passato in una categoria inferiore, anche se la D di quegli anni non era minimamente paragonabile a quella attuale. Il secondo anno, invece, disputai una stagione altamente positiva e mi scelsero come capitano… da ventenne non è poca roba. Il Ds era Stefano Capozucca, ora direttore sportivo del Cagliari. Al termine del campionato ‘93/’94 mi cercarono Lazio e Piacenza (la prima militava in A, mentre la seconda avrebbe ottenuto la promozione in massima serie proprio nella stagione successiva, ndr) ma fui costretto a cambiare procuratore e obbligato ad accettare tante piccole situazioni che, alla fine, mi portarono nuovamente a Monza”.


Che squadra era quel Monza? Che stagione fu?


Il Monza 1994/1995

“Sicuramente un campionato di rincorsa in cui abbiamo ottenuto un buonissimo piazzamento playoff, coltivando pertanto il sogno promozione per la B. Le forze, purtroppo, sono mancate proprio alla fine e non abbiamo avuto la meglio nello spareggio-semifinale contro il Fiorenzuola; siamo stati condannati dal peggior piazzamento in classifica ma avevamo davvero una bella squadra, come Cinetti che fu ingaggiato poi dall’Inter, Brambilla o Ruggero Radice (figlio dell’indimenticabile Gigi, ndr) e tanti altri ancora. Abbiamo fatto di tutto per giocarcela ma il Fiorenzuola, pur essendo una favola, aveva giocatori più esperti. Noi bravi ma troppo giovani”.


Poi il triennio a Lecce, con la doppia promozione che vi ha trascinato dalla C1 alla A: qual è stato il segreto di quella squadra?

“Direi proprio la squadra, ossia il saper essere un vero gruppo. Avevamo individualità importanti ma non basta per vincere. Tutto nasce da diverse componenti che, girando nel verso giusto, ti portano ad ottenere i risultati sperati; a Lecce c’era la perfetta coesione, dallo staff tecnico alla società, dal gruppo dirigenziale allo staff sanitario.


Ivan Aiardi al Lecce

Esisteva un undici titolare ma anche le riserve stimolavano in senso positivo chi scendeva in campo… in ogni caso, nessuno restava indietro. L’anno in C1 non fu semplice e ci mostrammo bravi a sfruttare le occasioni per vincere il campionato; nella stagione seguente, in cadetteria, la rosa venne rimpolpata con tre/quattro innesti di qualità che agevolarono il doppio salto in avanti”.


L’allenatore delle prime due stagioni era Gian Piero Ventura: quanto merito va dato al mister?

“Come ripeto, i risultati si ottengono attraverso diversi fattori ma il mister fu eccezionale nel farsi seguire e in breve tempo. In quegli anni era uno dei pochi a fare un certo tipo di gioco, costruendo molto bene un Lecce capace di lottare e imporsi contro rivali di tutto rispetto”.


Immaginavi la mancata qualificazione mondiale degli azzurri durante la sua gestione?

“Non saprei che dirti perché non ci sono dentro e non mi piace parlare di cose che non conosco. Forse non ha letto bene lo stato mentale della squadra. Forse si è ritrovato in una situazione più grande di lui e non è riuscito a gestire bene i rapporti con i giocatori, come invece aveva fatto a Lecce. Stiamo parlando, comunque, di due periodi divisi da un ventennio… troppe cose possono cambiare”.


L’esordio in massima serie, nel febbraio del ’98, arrivò in casa contro la Roma: che cosa hai provato in quei momenti?



“Entrai negli ultimissimi minuti al posto del titolare Lorieri che si era fatto male. È chiaro che ti passa un po’ di vita davanti e ripensi ai sacrifici fatti, ma se hai scelto questo mestiere ti devi far trovare sempre pronto, consapevole che il giorno dopo è un ricominciare da zero e c’è da lavorare per migliorarsi. Per natura non sono uno che si agita, affronto le cose di petto, tuttavia fu speciale esordire in casa con il pubblico amico. Ad essere sincero, però, provai più emozioni nella gara a Genova contro la Samp, quando entrai dopo pochi minuti dal fischio iniziale”.



Quattro presenze in A sono bastate per incrociare divinità del calcio anni novanta: chi, tra i calciatori affrontati e quelli visti dalla panchina, ti ha impressionato di più?

“Troppo difficile sceglierne uno… parliamo di una Serie A al top nel mondo. Di getto ti rispondo Zidane, che correva con il pallone sempre tra i piedi, e Roberto Baggio. Ce ne sarebbero troppi da menzionare, come Ronaldo, Verón, Javier Zanetti, Zamorano, Vieri, Peruzzi, Montella e ancora la lista è lunga. La percentuale dei campioni presenti era impressionante”.


Quali allenatori porti nel cuore?

“Tralasciando quelli dei portieri, con i quali ho sempre lavorato bene e sono stato fortunato ad incrociare dei veri professionisti, direi Sonetti, Prandelli, Ventura e Cavasin. Oltre al discorso tattico, sono tutti delle gran belle persone”.


Parere da portiere: da Gigi a Gigio, Donarumma può ripercorrere tecnicamente il percorso di Buffon?

“Credo che Buffon sia tra i portieri più forti di sempre e forse, analizzando le doti nella totalità degli aspetti, il migliore in assoluto. Devo ammettere che Donnarumma è migliorato tantissimo nell’ultimo periodo e mostra delle qualità veramente importanti per la giovane età. Di sicuro ha ancora ampi margini di crescita; non so se arriverà agli stessi livelli ma è molto forte”.


Pensi che il livello dei portieri italiani sia sceso rispetto agli anni novanta?


Stagione '98/'99 in B

“Diciamo che sta scomparendo la scuola dei portieri vera e propria. Certe volte mi capita di vedere degli errori nei livelli alti che, ai miei tempi, nessuno avrebbe tollerato e saresti stato cacciato al primo errore. I portieri stranieri, negli anni novanta, erano pochissimi e non giocavano mai, a parte qualche eccezione; ora la situazione è stata stravolta e occorrerebbe chiedersi il perché”.


Da portiere ad allenatore dei portieri: com’è la cambiata la vita di Ivan Aiardi?

“Senza dubbio non è venuta meno l’adrenalina che avverto in corpo appena sento l’odore del campo… faccio il tragitto in macchina per raggiungere lo spogliatoio e già mi sento a duemila. Amo gli ambienti che non siano piatti, dove poter migliorare insieme ai ragazzi che alleno… crescono loro e cresco io. Con i giovani hai molte soddisfazioni anche se bisogna saperli prendere. Se vedo un ambiente apatico preferisco starmene a casa”.


Ivan Aiardi oggi

Nel corso della tua carriera ti sei ritrovato ad attraversare lo stivale calcistico confrontandoti, da Nord a Sud, con le diverse tifoserie: quali sono le maggiori differenze che hai riscontrato?

“Gli stadi del Sud sono molto più caldi, in ogni gara è possibile respirare la passione del pubblico di casa… ed è un fattore che fa la differenza. È anche vero che i tifosi, quando le cose non vanno bene, vengono in campo ad insultarti e ci sono atteggiamenti fastidiosi. Può capitare che certe sconfitte si vivano in un clima decisamente pesante”.


Qual è stato il rimpianto più grande della tua carriera?

“Sicuramente il secondo anno in D, nel Corsico, quando a fine stagione mi volevano Lazio e Piacenza ma tornai a Monza. Come già detto, però, quella scelta non dipese da me”.

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