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Rozzi e gli anni di Ascoli: intervista a Walter Mirabelli



- di Luca Fazi - Il 18 dicembre di ventisei anni fa se ne andava Costantino Rozzi, ribattezzato affettuosamente il Presidentissimo, ovvero con quel “superlativo” che spetta solamente a chi è in grado di far coabitare in sé doti gestionali quanto umane.

Oggi, in questo spazio, abbiamo il piacere di ricordarlo anche grazie alle parole di Walter Mirabelli, storico bomber anni ’90 – ma non solo – che ad Ascoli disputò due campionati, dal 1994 al 1996. Con lui riporteremo alla memoria quelle annate, complicate ma non prive di emozioni.


Che presidente era Costantino Rozzi?

“Già dal primo impatto si percepiva il lato paterno ed umano. Arrivai ad Ascoli nel novembre del ’94 ed ero reduce da un brutto infortunio; nel parlarci gli dissi della mia situazione e lui mi tranquillizzò immediatamente. Rispose che la società mi avrebbe aspettato e dato tutto il tempo per recuperare. Durante la conversazione, mi confermò quanto tenessero a me e che già da tempo tentavano di portarmi nelle città marchigiana. Era riuscito, con tranquillità e pacatezza, a farmi sentire importante: per un calciatore è fondamentale. Poi dovetti accorciare drasticamente i tempi di recupero perché la situazione in campionato lo richiedeva e questo, purtroppo, non mi ha permesso di riprendermi al massimo, ma non sono stato mai bravo a limitarmi… per il calcio ho sempre dato tutto”.


Rozzi era presente con voi?

“Presente è persino riduttivo. Purtroppo ho avuto poco tempo per conoscerlo meglio, ma in quei mesi lo vedevi sempre accanto a noi. Le cose in campo non andavano bene, eppure non perdeva occasione per incoraggiarci.

C’è stato fino alla fine… non è solo un modo di dire. Solo il ricovero gli ha impedito di seguire la sua amata squadra. Quando arrivò la notizia della scomparsa giocavamo in casa contro il Pescara (partita vinta dai bianconeri per 3 a 0, ndr) e fu un trauma. Veramente una persona che ti rimane nel cuore. Credo che sia una dote di famiglia perché, dopo di lui, la presidenza passò al fratello Elio… un uomo straordinario e pieno di valori”.


Cosa ricordi del funerale?

“Senza dubbio un momento straziante. Ero già a conoscenza dell’affetto nei confronti del presidente, ma vedere con i miei occhi tutta quella gente fu incredibile. Un’intera città si è riversata in massa per donargli l’ultimo saluto… impossibile non commuoversi. D’altronde c’è poco da meravigliarsi: Rozzi ha dato tutto per la squadra.

Quando da ragazzino seguivo il calcio anni ’80, mi appassionava vederlo da Biscardi, ne Il Processo del Lunedì, e restavo colpito dai risultati raggiunti dall’Ascoli; anni dopo, diventando un suo calciatore, ne ho potuto constatare la grandezza.

Mi meraviglio che non gli sia stato ancora dedicato lo stadio. Massimo rispetto per la famiglia Del Duca, ma credo che si possa trovare una soluzione per rendere il giusto omaggio ad entrambi”.


Della sua rinomata scaramanzia che cosa mi dici?

“Beh, ho avuto veramente poco tempo per verificarne la portata… quel che so mi è filtrato dai racconti di chi l’ha conosciuto meglio di me. Ti posso garantire che cercava di mantenere gli stessi “riti” settimanali, come la messa del sabato a Villa Pigna”.


Come mai hai scelto Ascoli nel ’94?

“Arrivai dal Como, nello scambio con Galia. Sono onesto, vedendo la rosa della squadra bianconera credevo fermamente di ottenere la promozione in A. Bierhoff, Incocciati, Favo, Zanoncelli e tanti altri: c’erano i nomi per salire di categoria. Purtroppo lo spogliatoio era spaccato, con forti divisioni interne, e alla fine fu una stagione catastrofica, con la retrocessione in C1”.


L’anno dopo però fu un campionato totalmente diverso…

“La stagione successiva fu la classica dimostrazione che quando si è uniti si può arrivare lontano… sfortuna permettendo. Siamo ripartiti da un organico ristretto, ma unito, che si è andato a completare nel corso delle settimane e composto da calciatori motivati a far bene. Molti dovevano riscattarsi da esperienze negative e mostrare le proprie capacità.

Durante l’estate del ’95 feci un lavoro impressionante; andai dai migliori specialisti per riprendere il tono muscolare ai livelli ottimali. Fui chiaro sin da subito con mister Nicolini, dicendogli che me ne sarei andato anche a novembre qualora non fossi riuscito a tornare fisicamente come prima. Era una forma di rispetto per lui, per la società, per i tifosi ma anche per me stesso. Giustamente la gente, se avessi ripetuto la pessima annata, si sarebbe innervosita e avrebbe potuto etichettarmi come uno scarso… ed io, scarso, non mi ci sentivo affatto”.


Campionato da 22 timbri stagionali e promozione mancata solo per la finale play-off: quanto ti ha pesato quel rigore?

“Credimi, non ho mai più rivisto la lotteria dei tiri. So che girano filmati su Youtube e nei social, ma non ne voglio sapere nulla.

Ti dico un’altra cosa: se non si fosse infortunato Favo, con tutta probabilità, avremmo ottenuto pure la promozione diretta.

Ad inizio campionato nessuno avrebbe scommesso un soldo su di noi, ma eravamo veramente un gruppo ben gestito. Peccato per la finale con il Castel di Sangro. Mi ricordo che quel giorno persi tutti i lanci di monetina per stabilire il campo, la palla e l’ordine di tiro: forse avrei dovuto immaginarmelo che sarebbe stata una giornataccia”.


Cosa porti nel cuore della città?

“Ascoli mi ha colpito in positivo da subito, sia come città che per la tifoseria: uno stadio caldo. Non mi dimenticherò mai dell’esodo bianconero per raggiungere Foggia; non aver vinto in finale pesa anche per questo, perché sarebbe stato bellissimo regalare la promozione al nostro pubblico.

Pure nell’estate appena trascorsa sono passato per Ascoli; coltivo ancora degli ottimi rapporti con i ragazzi della squadra. Purtroppo sono stati anni difficili e non sempre semplici da gestire, tuttavia conservo ottimi ricordi dell’ambiente”.


Ti ci ritrovi in questo calcio?

“Onestamente no… faccio fatica. Ora vedo calciatori maggiormente interessati al look, a come sistemarsi i capelli e a curare meno l’atteggiamento per entrare in campo. Ai miei tempi c’erano anche stadi che ti facevano veramente tremare le gambe, come quello di Nocera Inferiore in occasione della semifinale play-off, ed è vero che non avevamo profili social da controllare ogni due secondi, ciononostante credo che si siano persi dei valori umani essenziali.

Oltre al discorso tecnico, sempre più carente. I soldi girano di meno e pochissimi vengono dedicati ai settori giovanili; non è un caso che l’Atalanta, sempre attenta ai giovani, sia un modello anche in questo e riesca a tirar fuori talenti in erba molto interessanti”.


Nella tua lunga carriera, hai condiviso lo spogliatoio con molti colleghi: mi fai il nome di un tuo compagno che, per doti tecniche, avrebbe meritato molto di più?

“Te ne potrei fare tantissimi. Per diversi motivi ne ho visti molti di talenti sprecati. Scelgo tre nomi: Oreste Didonè, Denis Godeas e Stefano Polesel.

Con il primo ho condiviso un anno a Como, sotto la guida di mister Tardelli, e ti assicuro che gli ho visto fare dei numeri impressionanti. Con Denis ho giocato a Cremona e credo che la carriera non gli abbia dato il giusto merito. Nel San Donà ho incontrato invece Polesel; malgrado l’età e i chili di troppo, ti garantisco che sapeva ancora fare la differenza.

Ecco, cito questi tre perché hanno ottenuto ben poco per le loro capacità ma, come ripeto, la lista sarebbe infinita”.


Grazie mille Walter, sei stato gentilissimo.

“Grazie a te e un saluto a tutti i lettori di In Barba al Palo. Un abbraccio”.

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