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Renato Curi: una morte (forse) annunciata

Aggiornamento: 29 ott 2021



- di Luca Fazi - Forse quella domenica di fine ottobre ha cambiato il modo di pensare di molti sportivi, mostrandoci con una crudeltà smisurata che quegli interpreti del rettangolo verde, vestiti in maglietta e pantaloncini, sono essere umani prima di tutto e non degli invincibili eroi. Il ragionamento può sembrare talmente logico da sfiorare il banale eppure, specialmente in età fanciullesca, si tende a mitizzare la figura del calciatore come un prodotto uscito da un pianeta a parte, dotato di una corazza protettiva efficace per ogni situazione. Nell’immaginario è l’emblema della salute fisica alla quale vengono allegate doti tecniche sconosciute ai più, capaci di regalare emozioni a quegli spettatori/sognatori in cerca di una giocata talentuosa e qualche ora di svago. Verrebbe da pensare che per i protagonisti della domenica (quando non esistevano ancora turni infrasettimanali ed orari spezzatino) non siano contemplati acciacchi, problemi fisici di varia natura e chi più ne ha più ne metta…figuriamoci morire a 24 anni. Curi in questo senso ha rotto (non per sua scelta) l’incantesimo che ci legava a questa scuola di pensiero fin troppo semplicistica e quanto mai errata. Classe ’53, nato nell’ascolano ma cresciuto in Abruzzo dove il padre si era trasferito per motivi di lavoro, Renato mostrava già dai primi anni un amore sconfinato per il pallone che l’avrebbe travolto sempre più, senza mai distoglierlo però dagli studi. Infatti il futuro numero otto, malgrado la giovane età, ha già la testa sulle spalle e fra voglia di conoscere e senso del dovere ottiene un diploma di scuola superiore non propriamente scontato visto che siamo nei primi anni ’70 e con una carriera sportiva già avviata. Dopo alcune esperienze locali viene tesserato dal Giulianova che nella stagione ’69-’70 lo fa esordire nel campionato di Serie D per poi concedergli la titolarità l’anno successivo a soli 17 anni. Con i giallorossi ci mette poco a mettersi in mostra anche perché Renato è uno di quelli che non mollano mai, lottano su ogni pallone ma allo stesso tempo hanno avuto in dono dal Padre Eterno due piedi gentili che di tanto in tanto non disdegnano di cimentarsi in cross precisi e smarcanti. La maggiore età (all’epoca 21 anni) era ancora distante ma la maturità mentale del giocatore si poteva già evidenziare; ragazzo socievole e sempre allegro che sapeva divertirsi in modo sano e sognava già il suo futuro ed una famiglia…come fosse ben conscio del poco tempo a disposizione. I lupi abruzzesi ottengono la Serie C anche grazie alle sue prestazioni (oltre che due reti messe a referto) e per Curi cominciano a farsi avanti osservatori che lo considerano sprecato per quella categoria, quindi meritevole di palcoscenici più vasti. C’è un giovanissimo Ilario Castagner, a quel tempo collaboratore dell’Atalanta, che era stato mandato dalla società bergamasca a seguire in Sardegna la partita fra la Torres ed il Giulianova…era stata richiesta la valutazione di un altro prospetto ma il veneto rimase incantato da quel numero otto dotato di un ottimo tocco di palla e di una buonissima progressione con la sfera fra i piedi. Quel giorno Castagner tornò a casa triste a causa della matematica retrocessione della sua Dea ma in cuor suo felice di aver scoperto un calciatore interessante sotto tutti gli aspetti, sia quello tecnico che umano. Le ultime due stagioni con il Giulianova sono entusiasmanti, con il club che ottiene prima una salvezza alquanto complessa, ribaltando i pronostici, e nel campionato seguente raggiunge un secondo posto finale coltivando fino all’ultimo il sogno promozione con la Spal. Per Curi è tempo di fare ancora un altro salto in avanti e sono molte le società di B che bussano alla sua porta ma alla fine è il Como ad avere il tocco più pesante e convincente. I Lariani arrivano ad un passo dalla promozione disputando un buon campionato ma Renato non mantiene completamente le aspettative, giocando una stagione non trascendentale. In campo la grinta ed il cuore non mancano ma sarà proprio quest’ultimo a dar i primi segnali strani e abbastanza preoccupanti. Lo staff medico non ci vede chiaro e decide di mandarlo al centro di Coverciano per test più approfonditi e chiarificatori. La struttura toscana non era assolutamente all’avanguardia, specialmente nel campo della cardiologia, ma viene riscontrata nel calciatore un’attività elettrica del cuore irregolare e la presenza di aritmie. Lo stop sembrerebbe il naturale percorso da fare, invece a Curi viene firmata l’idoneità valida per sei mesi a differenza di quella “classica” da dodici, forse perché convinti che sarebbe bastato un controllo annuale in più o magari no. Siamo nel pieno degli anni settanta e le società badavano ben poco alla salute dei propri tesserati, magari costringendoli a recuperi lampo e senza il corretto percorso riabilitativo, preferendo il proprio tornaconto personale. Si sarebbe arrivati a tutto pur di non sospendere un calciatore che rappresentava il valore economico prima che umano…anche a firmare “carte false”. Con la fine del campionato e l’idoneità ottenuta, si fa sotto per ingaggiarlo il Perugia che milita in cadetteria e sulla sua panchina siede proprio quel Castagner, chiamato alla prima esperienza da allenatore e da sempre ammiratore del numero otto.


La Curva Nord del Perugia che non ha mai dimenticato Renato

La società umbra conquista subito la massima categoria, grazie anche ad una doppietta di Curi nella sfida cruciale con il Verona, e comincia con passo rapido a scrivere quella favola calcistica che sfocerà nel “Perugia dei miracoli”. I biancorossi provano a praticare quel “calcio totale” tanto di moda in quel periodo dove tutti corrono per tutti e la manovra è sincronizzata al secondo; Renato da lottatore nudo e crudo comincia a trasformarsi in un regista, Vannini è l’interno di centrocampo dalle grandi prestazioni e per quanto concerne il talento c’è Novellino, scenico quanto efficace. Alla solidità in campo si affianca quella societaria che vede nell’asse D’Attoma-Ramaccioni-Castagner (presidente, direttore sportivo ed allenatore) un perfetto mix che porterà il Perugia dalla B a giocarsi lo scudetto, perso da imbattuti (mai successo prima) solo nei confronti del Milan della “stella”. In quella squadra c’è l’armonia giusta fra i compagni, che si manifesta in campo sotto gli occhi di una tifoseria in precedenza poco abituata ai grandi palcoscenici ma da sempre calda ed innamorata di questo sport. Curi, ormai diventato uomo simbolo del club, disputa il campionato ’75-’76 in maniera impeccabile, firmando pure il goal vittoria nel match fra Perugia e Juventus… non solo Davide che sconfigge Golia, ma quella rete dell’ultima giornata toglierà il tricolore ai bianconeri consegnandolo nelle mani del Torino, in festa per il suo settimo e al momento ultimo scudetto. La società umbra termina il suo primo anno in A all’ottavo posto e sembra che non ci sia spazio per note negative, eppure il cuore di Curi continua a non stabilizzarsi. Renato andava ogni volta a Roma per gli esami fisici e tutte le volte tornava con quella licenza di breve durata che gli permetteva di continuare ma senza ricevere garanzie circa il suo stato di salute… gli interessi di alcuni stavano avendo la meglio sulla vita del calciatore. Nel frattempo Curi era diventato padre di Sabrina, avuta dalla moglie Clelia, e nel poco tempo libero cercava di intraprendere una complicata carriera universitaria. Amava leggere e spesso si documentava sulle varie problematiche legate al cuore, ben informato che qualcosa non andava come doveva. Lui stesso, durante un’intervista, raccontava di un “cuore matto” e di quando venne mandato a Coverciano per degli esami approfonditi. Si paragonava a Franco Bitossi, ciclista dell’epoca, celebre per le sue tachicardie che gli imponevano di fermarsi in gara per poi riprendere e togliersi anche diverse soddisfazioni sportive. Renato ci scherzava su, non potendo immaginare la fine che gli sarebbe toccata e non stava certamente a lui autosospendersi, piuttosto andava fermato da chi ne aveva il potere e dovere.


Un giovanissimo Curi con la primogenita Sabrina

E’ il 30 ottobre del ’77 e al Comunale di Pian di Massiano va in scena un Perugia-Juventus che profuma di grande sfida. Quella gara vedeva il rientro di Renato dopo uno stop condizionato dai problemi alla caviglia; in settimana aveva preso una botta nell’allenamento di Spello e tutto sembrava dovesse far slittare il ritorno in campo ma lui stesso, la domenica mattina, rivolgendosi all’allenatore disse: “Mister, sento che oggi farà una grande partita!”. Il tempo non promette nulla di buono e dal cielo arriva una pioggia copiosa come se anche dall’alto si volesse piangere ciò che sarebbe successo da lì a poco. Il campo è di una pesantezza impressionante e Renato esce malconcio dal primo tempo dopo uno scontro duro con Causio: cinque minuti dalla ripresa ed avviene ciò che non ti aspetti. Si deve battere una rimessa laterale ma nessuno degli uomini in campo segue l’azione perché tutti corrono verso lo stesso punto, c’è un calciatore del Perugia a terra! Non c’è stato nessuno scontro e la gente non comprende cosa possa esser capitato ma i massaggiatori umbri, Renzo Luchini in primis, si fiondano in mezzo al campo per soccorrerlo con il terrore negli occhi. Il corpo di Renato Curi è a terra ed il manto erboso si trasforma in un triste cuscino che accoglie il viso paonazzo dell’atleta… la pioggia non cessa di battere il suo ritmo, il cuore si. Renato chiude gli occhi e si lascia andare nella pancia dello stadio dopo due iniezioni di adrenalina, respirazioni e massaggi cardiaci ma niente da fare, non c’è risposta. Viene trasferito al policlinico ma è tutto inutile per quel piccolo uomo di 165 centimetri appena ma grande ed immenso nell’animo. La partita scorre, il difensore toscano Matteoni prende il suo posto, nessuno allo stadio immagina che sia successo qualcosa di irreparabile, poi l’annuncio di Ciotti alla radio: “ Scusa Ameri, qui a Perugia, il centrocampista Curi del Perugia è morto”. Quella notizia rimbomba nella testa degli ascoltatori lasciando un silenzioso rumore che ferisce nel profondo; per la prima volta si era assistito alla morte in diretta, senza saperlo, e in un modo incredibile. L’annuncio arriva in concomitanza del fischio finale dell’arbitro Menegali di Roma… la partita con la vita era terminata e lo 0 a 0 del campo non aveva alcuna importanza. Arrivò l’esito dell’autopsia curata dal professor Severi e tutti quei dubbi tornarono a galla: venne trovata una malattia cronica del cuore capace di dare morte improvvisa e quindi restò impossibile non fare i conti con tutti i permessi firmati nei vari anni passati. La vicenda giudiziaria però non consegnò le risposte che tutti, familiari in primis, aspettavano di conoscere e si concluse con una leggerissima condanna per il medico del Perugia e quello di Coverciano (la pena diminuì quasi del tutto grazie alle colpe “diluite” con gli staff sanitari di Roma). Forse ancora più triste fu l’arringa esposta dal Pm nella quale affermò senza giri di parole che “quando un giocatore entra in un club professionistico, diventa solo un numero per tecnici, medici e dirigenti”.


La moglie Clelia a sinistra con i figli Renato junior e Sabrina in occasione della mostra fotografica organizzata per i 40 anni dalla morte di Curi

Di Renato non sarà rimasta la maglia di quella maledetta partita, forse tagliata dai medici durante i tentativi di soccorso, però sono molteplici i ricordi indelebili di quel “folletto” che in campo si dava da fare e nella vita regalava sorrisi. La fotografia era una delle sue più grandi passioni forse perché aveva capito più e prima di tutti quanto fosse importante immortalare un istante, una frazione di secondo che non ammette repliche e non ha niente di simile a ciò che è stato un attimo prima e a quello che sarà. Per lui rimangono ancora oggi, a distanza di quarant’anni, un nutrito gruppo di amici e colleghi, da Frosio a Vannini senza dimenticare Agroppi e tanti altri, che con l’avvicinarsi dell’anniversario della morte non perdono occasione per ritrovarsi nel capoluogo umbro e rendergli il giusto omaggio, ricordando i tempi andati e partecipando attivamente a tutte le iniziative messe in programma. I tifosi, unici nel suo genere, continuano ogni domenica a far partire quel coro, “Lode a te Renato Curi”, che dalla Nord si propaga per l’intero stadio senza far differenze anagrafiche… perché anche se non hai avuto la fortuna di vederlo giocare è impossibile non provare un senso di stima ed affetto incondizionato nei confronti di quel piccolo ma grande uomo. L’ultima grande giocata? No, nessuna partita ma quel seme lasciato crescere nel grembo di Clelia che vedrà la luce otto mesi dopo la morte del padre; il destino, o chi per lui, si presenta brutalmente quando non puoi nemmeno immaginarlo ma è scontato dire che anche da lassù, con l’ardore che lo caratterizzava in vita, Renato continua a proteggere i propri cari dalle problematiche quotidiane. Mi piace immaginarlo appoggiato ad una nuvola con la chitarra in mano suonando i pezzi de “Il mio canto libero” (il disco di Battisti, ultimo regalo ricevuto dalla moglie) ed ogni tanto commuoversi per l’amore che il popolo biancorosso continua a dedicargli, seguendo da un punto di vista privilegiato tutte le partite del Grifo giocate in quello stadio che ora porta il suo nome.

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