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  • Immagine del redattoreLuca Fazi

L'ultimo dono di Erbstein, l'uomo che costruì il Grande Torino

Aggiornamento: 6 mag 2021


Più che un allenatore, direi un filosofo… un giusto in un mondo ingiusto”.


(Raf Vallone – giocatore granata e star del cinema – parlando dell’amico Erbstein)



- di Luca Fazi - La Grande Guerra vissuta negli anni migliori, quelli della spensieratezza, sarebbe dovuta bastare per saldare il conto con una vita complicata già dagli albori… e invece no. Ernő (per tutti Ernest) Egri Erbstein si è ritrovato a fronteggiare i diversi orrori della Storia senza che questa gli risparmiasse qualcosa.

Nato nel 1898 ad Oradea (in Transilvania), all’epoca territorio dell’impero austro-ungarico, coltivò già in tenera età la passione per il calcio. Da mediano giunse in Italia nel 1924, alla corte dell’Olympia Fiume (Fiumana), mettendosi in luce con ottime prestazioni e rappresentando al meglio quella scuola danubiana destinata a far parlare di sé. Tuttavia non erano i tempi migliori per chi, non italiano, si ritrovava catapultato nella realtà dei campionati di casa nostra. La Carta di Viareggio, del ’26, costrinse difatti le società a ridurre notevolmente il numero di stranieri, prima, per poi negarne totalmente la presenza: l’avvento del Fascismo condizionò pure l’aspetto calcistico. Erbstein, dunque, trascorse gli ultimi anni della carriera negli Stati Uniti, dove lavorò come agente di borsa.

Riabbracciò l’Ungheria (quando aveva soltanto due anni la sua famiglia si era trasferita a Budapest) iniziando a studiare il calcio con un approccio del tutto innovativo e propedeutico per il futuro mestiere da allenatore.

Erbstein nel 1939

Alimentazione, tatticismi ripetuti allo sfinimento e mirate sedute di allenamento in base alle capacità di ogni singolo calciatore: il magiaro non lasciava nulla al caso. Per quei tempi sembra un folle eppure farà scuola per le successive generazioni che siederanno sulle panchine del Vecchio Continente e che in lui riconosceranno un pioniere.

Torna in Italia, dove dirige la De Pinedo (attuale Fidelis Andria) come prima tappa di un tour che lo vedrà impegnato nella parte bassa dello stivale, mentre più nord troverà riconoscimenti e gloria. Nel ’33 assume la guida della Lucchese impegnata in Prima Divisione (Serie C) e già nella prima stagione ottiene la promozione in cadetteria.

Ne seguirà un campionato di assestamento prima di strappare lo storico accesso alla massima categoria durante l’annata ’35-’36: il nome del mister è sempre più annotato sui taccuini dei direttori e presidenti sportivi. Il battesimo in A è di quelli memorabili, tant’è che il settimo posto finale (a pari punti con l’Ambrosiana-Inter) e l’imbattibilità casalinga appartengono tuttora ai record assoluti del club rossonero.

Gli anni colmi di sacrifici e rinunce sembrerebbero ripagati; Erbstein fa il lavoro che ama ed ha una famiglia unita (sempre più numerosa) che, malgrado il periodo storico tragicamente complesso, rende il tutto meno amaro. Alla primogenita Susanna (che diventerà una ballerina e poi coreografa di fama mondiale) regala spesso delle bamboline vestite con i costumi tipici dei posti in cui l’allenatore va in trasferta… ma la carriera sportiva dell’uomo è destinata a subire un brusco arresto.

Il magiaro ha origine ebraiche e le leggi razziali del ’38 lo costringono ad abbandonare Lucca, alla ricerca di una dimensione che permetta alle sue figlie di frequentare delle scuole private: quelle pubbliche sono vietate.

Ferruccio Novo

Accetta perciò l’offerta di Ferruccio Novo, lo storico presidente del Grande Torino che è letteralmente affascinato dallo stile dell’allenatore ungherese e lo richiede come direttore tecnico. Purtroppo l’esperienza granata viene interrotta a metà campionato, poiché l’ondata antisemita si diffonde a macchia d’olio e l’Italia non è un luogo sicuro. Ottiene un contratto per allenare in Olanda e con i moduli già firmati, che dovrebbero fungere da lasciapassare, parte con la famiglia verso la nuova meta: non la raggiungerà. Vengono bloccati in Germania, ad un passo dal confine, e sono costretti a fermarsi in quel territorio fortemente ostile agli ebrei. La situazione è drammatica e il rischio che Erbstein venga deportato in un lager nazista si fa sempre più concreto. Sarà decisivo l’intervento di Novo che li aiuterà a raggiungere l’Ungheria dove la situazione, seppur non idilliaca, è ancora accettabile.

Valentino Mazzola (a sx) con Erbstein

Il patron granata gli permette inoltre di tornare ogni tanto in Italia, avendogli trovato un posto di lavoro per un’azienda tessile di Biella come rappresentante. In questo periodo si “sdebita” con il numero uno del Torino segnalandogli due giovani interessanti e dall’avvenire certo: nientemeno che Valentino Mazzola ed Ezio Loik. Intanto il contesto si inasprisce anche nella capitale magiara con le truppe tedesche che invadono il territorio: l’allenatore viene inserito in un campo lavoro finalizzato alla costruzione di strade e ferrovie. Sua figlia Susanna trova riparo in una struttura per ragazze cattoliche, dopo che si era rifugiata con la famiglia in una fabbrica, grazie all’intervento di padre Klinda, uno Schindler magiaro.

Dopo mille peripezie e continui azzardi per evitare i campi di sterminio, Erbstein torna in Italia nel ’45, nascosto dal presidente Novo sino alla fine del conflitto. Con il ripristino della Serie A, tornerà a far parte del Grande Torino nei panni di consulente e direttore tecnico.

Erbstein (primo a dx, in piedi) con il Grande Torino

Da sempre attento ai principi morali e al rispetto del fair play, l’ungherese contribuì con la sua esperienza alle cavalcate trionfali della compagine torinese (memorabile la stagione ’47-’48, con ben 125 centri messi a referto in quaranta partite), prima che il destino tornasse a presentargli un altro conto, stavolta senza la possibilità di saldarlo se non con la propria vita.

È il tardo pomeriggio del 4 maggio 1949.

È il giorno in cui gli eroi del pallone divennero immortali.

Su quel Fiat G.212, che stava riportando a casa i granata dall’amichevole di Lisbona contro il Benfica, c’era pure Erbstein. Tra le macerie dell’aereo, intorno alla basilica di Superga, oltre ai corpi irriconoscibili delle vittime vi erano alcuni effetti personali. La figlia Susanna fu l’unica della famiglia ad avere il coraggio di andare sul posto: su tutte, riconobbe una valigia in particolare. Era la sua, l’aveva donata al padre per il viaggio ed era ancora intatta. Decise di aprirla e constatò la presenza di tutto il materiale inserito alla partenza, eccetto una cosa… una bambolina portoghese. L’ultimo dono.




Alla memoria di un uomo giusto


A lato, la figlia Susanna con in mano l'ultimo dono del padre: la bambolina portoghese. Diventerà per la donna un portafortuna dal quale non si separerà mai.

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