Kiev negli occhi e il 7 come mantra: la carriera di Sheva
- Luca Fazi
- 28 set 2018
- Tempo di lettura: 11 min
Aggiornamento: 28 set 2021

Nella Smorfia il numero sette è rappresentato dal vaso di creta, oggetto che quando idratato può essere lavorato e modellato a proprio piacimento per poi trovare una forte solidità appena portato ad altissime temperature. Tutto nasce da una materia prima economica, alla portata di tutti, fino a trasformarsi in un prodotto pregiato e diventando così una vera testimonianza di un ragguardevole artigianato. Guai però a farlo cadere perché si ritroverebbe distrutto in mille pezzi con estrema facilità, andando a perdere quelle che sono le sue peculiarità e senza la possibilità di tornare esattamente a ciò che era. Riflettendoci un attimo questo percorso non è distante da quello di un ragazzo, Shevchenko per la precisione, che con il numero sette ha incantato un intero stadio e fatto innamorare una moltitudine di tifosi con le sue giocate. L’acqua, fondamentale per costruire e plasmare la “creatura” in questione, potrebbe avere perfettamente le sembianze del colonnello Valeri Lobanovski, uomo burbero e poco incline ad esternare i sentimenti, che con la squadra della sua città, la Dinamo Kiev, si era fatto valere da calciatore per poi stregare i palcoscenici europei (due Coppe delle Coppe vinte) sedendo in panchina. Le alte temperature, preziose per forgiare il tutto, sarebbero ottimamente rappresentate dal fuoco eterno che brucia nei cuori dei tifosi rossoneri e fondamentale per riscaldare San Siro anche nelle notti più fredde…il frantumarsi non può che essere la metafora di quella separazione precoce dalla casa madre che di fatto ha sancito la fine sportiva del calciatore. Quel bambino dagli occhi di ghiaccio e carichi di malinconica espressività si era trasferito a Kiev quasi appena nato senza sapere che a dieci anni avrebbe dovuto abbondare di nuovo quel posto per spostarsi più verso la costa; non era una scelta dettata dalla volontà di abbandonare quegli inverni fin troppo freddi per mete più confortevoli semmai per sfuggire da quelle ignobili radiazioni che il disastro di Chernobyl aveva creato. Il pallone ha da sempre rappresentato la forma d’evasione più pura nei cuori dei bambini, figuriamoci in quelli nati in ambienti ostili e martoriati da minacciose instabilità politiche che ti fanno crescere prima del tempo…e quella sfera di cuoio rappresenta l’ultimo contatto con la spensieratezza. Andry frequenta ancora le scuole elementari quando, accompagnato dal padre Mykola, cerca di mettersi in mostra fra i vari provini organizzati dalle scuole calcio. Conoscendo ciò che sarà può sembrare assurdo eppure il ragazzo ucraino colleziona solamente una sfilza infinita di no, venendo rifiutato da tutti o quasi. Infatti c’è un talent-scout che collabora per la Dinamo Kiev e a differenza di tutti gli altri capisce che quei movimenti con e senza palla non sono merce da far passare in secondo piano, quindi senza pensarci troppo lo propone al club che non se lo lascia scappare.

Il colonnello oltre che esser laureato in ingegneria idraulica è da sempre un grande intenditore di talenti calcistici nonostante dia sempre più importanza al gruppo rispetto al singolo. Le sue squadre infatti le ha sempre portate ai successi formando un’armonia di gioco paragonabile ad un’orchestra ben attrezzata, puntando alla crescita collettiva senza sviluppare tutto il gioco su un semplice solista. E’ vero che nei suoi anni alla Dinamo, dove ha allenato in tre tappe, ben tre giocatori hanno conquistato il Pallone d’Oro ma è innegabile il fatto che molti suoi calciatori abbiano dato il massimo solo con lui in panchina per poi fallire altrove…quasi tutti ma Sheva no! Lobanovski è un rivoluzionario del calcio tanto da farsi mandare negli anni settanta un calcolatore, acquisto valutato e controllato dal KGB, per non lasciare nulla al caso ed esaminare ogni allenamento con dati scientifici ed autentici. Nel suo calcio non c’è spazio per colpi di genio o improvvisazioni ma solo movimenti ripetuti fino allo sfinimento e portati all’esecuzione precisa quanto maniacale. Sheva è uno di quelli che gode della nascosta stima del colonnello ma quest’ultimo fra la nazionale dell’Urss e luoghi più remunerativi non riesce a seguirlo da vicino nel suo percorso delle giovanili. Nel 1997 però torna ad allenare per la terza ed ultima volta i biancoblu di Kiev e si trova davanti un calciatore tecnicamente ben preparato e con la mentalità del sacrificio, dote apprezzata da chiunque ma che nel cuore di Lobanovski ha la priorità assoluta. Gli allenamenti erano lunghi e faticosi, con carichi di lavoro pesanti, ma nulla a confronto della “ciliegina” che li attendeva sempre nei minuti finali: la salita della morte! Erano delle ripetute che si sviluppavano su terreni al 18% di pendenza e spesse volte fatti con il peso di un compagno sulle spalle; chi non vomitava e riusciva a portare a termine l’esercizio era pronto per giocare e valeva la maglia che indossava…Sheva non vomitava mai! Quel ragazzo migliorava a vista d’occhio ed aveva la mentalità giusta per andare d’accordo con il mister eccezion fatta per quel vizietto di fumare che piaceva tanto ad Andry. Nessun problema per Lobanovsky che comandò ad uno dello staff di iniettare al giocare una soluzione a base di nicotina…Sheva passò una giornata a star veramente male ma poi del fumo non ne volle saper più nulla. La Dinamo Kiev comincia a far paura ed esce allo scoperto nel novembre del ’97 quando, in trasferta al Camp Nou, stende il Barcellona per un 0 a 4 finale destinato a rimanere nei libri di storia calcistica. Il club ucraino stende i padroni di casa già nel primo tempo quando il numero 10 (ancora non era un 7) riesce a siglare una tripletta che lascia tutti a bocca aperta; il gemello d’attacco Rebrov chiude il conto nella ripresa. Ormai non si può nascondere al mondo quel talento che così prepotentemente decide le partite senza guardare in faccia nessuno e le offerte iniziano a fioccare come la neve nei gelidi inverni di Kiev. Il Milan è quello che più di tutti crede in Andry e vuole investirci, così Fabio Capello manda in avanscoperta il suo fidatissimo collaboratore Italo Galbiati affinché osservi da vicino quel gioiello dalle rare doti tecniche.

Ancora però non erano i tempi maturi per portarlo via(bisognava tener nascosta la trattativa) e per Sheva non rimane che incantare in Champions ancora per un’altra stagione con la maglia della Dinamo: il ’98-’99 sfiora l’impossibile. Se l’anno prima la squadra si era fermata ai quarti questa volta si raggiungono le semifinali coltivando un sogno finale spezzato solo dal goal di Basler che porta in un momentaneo paradiso i tedeschi del Bayern Monaco. In quell’edizione Sheva è il bomber della competizione con otto centri insieme a Yorke ( dieci per l’ucraino se consideriamo i turni preliminari) e dopo aver rifilato una doppietta (e tre goal totali) al Real Madrid, battuto l’Arsenal al girone e altri due goal nell’andata contro gli uomini di Hitzfeld diventa a chiare lettere l’uomo mercato più desiderato. Il Milan è Campione d’Italia in carica grazie ad uno scudetto vinto nella maniera più clamorosa possibile (recuperando sette punti in sette giornate…ancora questo numero) ma da tempo soffre di complessi d’inferiorità nei riguardi dei cugini interisti che hanno quel “Fenomeno” tanto bravo in campo quanto a far emozionare i tifosi sugli spalti. L’asso brasiliano era nato lo stesso anno ed appena 11 giorni prima ma dalla sua aveva già un Mondiale vinto, un altro perso in finale e numeri da capogiro pronti solo per essere ampliati…Sheva poteva rappresentare al massimo una speranza per i colori rossoneri ma le certezze erano ancora ben poche. In estate arriva alla corte di Zaccheroni (Capello nel frattempo si era trasferito alla Roma) e già dal primo allenamento si iniziano a capire molte cose sul suo conto; Sheva e compagni terminano la sessione pomeridiana ma il bomber ucraino non si capacita di come sia già tutto concluso, così si avvina a Costacurta domandogli in un italiano malconcio ma comprensibilissimo “Ale, quando inizia allenamento?”. Billy inizialmente pensa ad una presa per i fondelli ma il volto di Andry è serissimo e sapendo alla perfezione da dove veniva non impiegò molto tempo a capire che non si trattava di uno scherzo. Sheva si presenta al Milan esordendo al Via del Mare di Lecce in un campo fangoso e timbrando subito il cartellino anche se non fu sufficiente per la vittoria fuori casa…nelle prime sette gare di Serie A saranno sette le palle depositate in rete e tutto che si ripete ancora come un mantra. Il numero di maglia doveva essere il 10 come ai tempi della Dinamo ma era occupato da Zvonimir Boban, non uno qualunque, e allora arrivò lo scambio con il compagna Ba che gli propose di “scalare” di tre cifre. Primo campionato e subito titolo di capocannoniere con 24 reti, traguardo raggiunto al primo tentativo da uno straniero solo da Platini anni prima, ma le prestazione del club lasciano a desiderare. Andry era partito come riserva di Weah ma con la cessione al Chelsea del liberiano divenne titolare inamovibile formando insieme a Leonardo un tridente che girava intorno alla prima punta Bierhoff. Sacrificarsi non era un problema per l’ucraino ma come seconda punta faceva fin troppi goal ed il suo spostamento da centravanti puro divenne quasi naturale. Altro campionato ed altri 24 sigilli nel tabellino del campionato ma il Diavolo deve cambiar pelle e nel 2001 la campagna acquisti diventa faraonica grazie agli arrivi di Rui Costa, Pippo Inzaghi ed un giovanissimo Pirlo non considerato all’inizio ma fortemente apprezzato in seguito.

L’ “imperatore” Terim è l’uomo folcloristico chiamato per la panchina ma la società impiegherà appena dieci gare per sollevarlo dall’incarico e contattare un vecchio cuore rossonero come Ancelotti, soffiandolo al Parma che voleva ingaggiarlo. Fra Sheva ed il tecnico emiliano non è amore a prima vista anzi ci sono tutti i segnali per una separazione fra i due in modo particolare quando, nella trasferta di Firenze, Sheva sbaglia un rigore che avrebbe portato il doppio vantaggio del Milan e per questo viene immediatamente sostituito. Il match terminò con il pareggio fortunato dei gigliati all’ultimo minuto grazie ad un altro “imperatore” (Adriano) e fra prove poco convincenti e qualche infortunio si arrivò ad un quarto posto finale deludente ma efficace per disputare la Champions del prossimo anno. Proprio il turno con lo Slovan Liberec gli causerà un infortunio al menisco capace di rovinargli gran parte della stagione e farlo tornare disponibile solo nelle fasi finali…dove usciranno i suoi occhi di ghiaccio da killer spietato. Lo scudetto dopo un buon inizio è archiviato in favore della Juve ma in Europa il Milan c’è e veste sempre elegante quando in palio ci sono notti europee dall’immenso valore e prestigio. I gironi vengono dominati ma nei quarti i lancieri dell’Ajax mettono in crisi la squadra di Ancelotti che trova la vittoria solo a pochi secondi dalla fine grazie ad un pallonetto infinito e inventato da Inzaghi…Galliani aveva già abbandonato la tribuna per poi sentire il boato di San Siro una volta entrato quel benedetto pallone. In semifinale c’è il derby di Milano in versione continentale e vengono giocate due partite (specialmente la prima in “casa” dei rossoneri) esteticamente brutte e con la paura di perdere in gola e nelle gambe. Lo 0 a 0 del primo atto permette alla banda di Ancelotti di aver maggior peso in caso di goal; Sheva al ritorno crea dal nulla una giocata delle sue beffando sia Cordoba che Toldo e gonfiando una rete che sa di sentenza. Martins pareggia e rende gli ultimi minuti un assedio con tutto il popolo di fede nerazzurra pronto a suonare la carica ma l’arbitro si porta il fischietto in bocca e l’attaccante ucraino finalmente può godersi il suo riscatto dopo mesi complicati. La finale parla ancora la lingua di Dante e quel 28 maggio, con la Juventus come rivale, avrà solamente un momento ben preciso come spot principale dell’intera gara: il rigore di Andry. Il Milan si era portato in vantaggio nei tempi regolamentari ma la rete venne ingiustamente annullata così si arrivò ai tiri dal dischetto per decidere la vincitrice e a Sheva il compito di calciare il pallone decisivo. Buffon è piazzato sulla linea mentre l’attaccante ha gli occhi impauriti di chi sembra trovarsi fuori dal contesto…quelle continue occhiate all’arbitro però non sono frutto di timori ma chiari segnali della voglia di eseguire il proprio ordine come un soldato bene addestrato. Gianluigi da una parte, la palla dall’altra e per Andry arriva il primo trofeo con il Milan che aggiunge un ulteriore “pezzo” alla vasta collezione.

Il Pallone d’Oro viene, forse ingiustamente, affidato nelle mani e nei piedi divini di Nedved ma quel riconoscimento arriverà a Sheva appena l’anno dopo, giusto il tempo di decidere due supercoppe (europea con il Porto ed italiana con la Lazio) e conquistarsi il tricolore 2004 da protagonista, andando a segno nella gara contro la Roma fondamentale per la matematica certezza. Il Milan in Champions continua ad esserci ma fra i fantasmi del Riazor e la notte maledetta di Istanbul, non riesce a concretizzare nulla: la finale del 2005 viene buttata via in soli sei minuti…per il resto del tempo Dudek riesce a parargli pure le mosche. Il suo rigore è la versione horror di quello battuto appena due anni prima e dopo quella partita stregata saranno diversi, Pirlo su tutti, a pensare di cambiare aria o addirittura farla finita con il calcio. Sheva resta un altro anno e proprio nella città turca, giocando contro il Fenerbache, si prende una piccola rivincita timbrando quattro reti ma il suo goal annullato ingiustamente in semifinale pone effettivamente fine al suo percorso da milanista. L’addio si vocifera ma diviene palese solo dopo le dichiarazioni del presidente Berlusconi che lasciano poco all’immaginazione. I tifosi lo vogliono in curva sud a seguire l’ultima gara di campionato inneggiandolo per novanta minuti ma non basta…la conferenza stampa è contornata di poche parole ma fortemente eloquenti per dimostrare che non è un addio facile e felice tanto che vengono improvvisate delle scuse banali piuttosto che vere motivazioni. Abramovich, presidente del Chelsea, personifica il ricco e malvagio che porta via il cuore al Diavolo e per la prima volta Berlusconi cede un grande giocatore. A 30 anni e con un Mondiale sudato e giocato con la sua Ucraina nessuno può immaginarlo finito ed incapace di fare la differenza…come un vaso di creta malamente caduto a terra.

Segna in Community Shield baciando lo stemma della sua nuova squadra e ferendo nei sentimenti più puri tutti quei tifosi che per sette lunghi anni (ancora questa cifra) lo hanno acclamato con i colori del Milan…poi il vuoto più totale. Il Re dell’Est torna in prestito dopo due anni e alla prima di campionato con il Bologna, dopo esser entrato dalla panchina, ha l’occasione per far ripartire ciò che si era interrotto ma Antonioli dice di no e allo stesso tempo mette il the end al risorgimento dell’ex numero sette ormai diventato un freddo 76, come la sua data di nascita. Allora finisce dove aveva iniziato, con quella Dinamo Kiev che l’aveva mostrato al mondo: nel club si improvvisa centrocampista giocando anche terzino se necessario, visto che il “colonnello” gli aveva insegnato l’arte del sacrificio. Non vince il campionato perché in quegli anni arriva un rivale come lo Shakhtar a rendergli la vita difficile ma la sua umiltà gli permettere di rimettersi in gioco e strappare la convocazione per gli Europei del 2012 giocati anche nella sua Ucraina. Allora Sheva decide di indossare nuovamente i panni del killer d’area e nella serata dell’undici giugno a Kiev è autore della doppietta che stende in rimonta la Svezia della divinità Ibra. In quella partita ha rivisto nella sua testa tutti i vari momenti che lo hanno segnato nel profondo: quel bambino che pensava in grande, la notte del Camp Nou, l’arrivo al Milan per 45 miliardi e quel presidente/amico che, mettendo a disposizione i suoi miglior chirurghi, era riuscito a prolungare la vita del padre Mykola affetto da gravi problemi cardiaci. Il genitore sognava che facesse la carriera militare ma Andry ha preferito conquistare il mondo del pallone ed il cuore dei suoi tifosi…come in quella doppietta del 6 a 0 all’Inter (alla quale ha segnato ben 14 volte) del 2001 o come nel rigore di Manchester. Non era un assoluto numero uno in qualcosa ma sapeva fare divinamente tutto senza avere mancanze o limiti tecnici anche perché li avrebbe tolti immediatamente grazie al lavoro e con la voglia di mettersi alla prova. Lobanovski aveva abbandonato questo mondo prematuramente nel 2002 colto da un malore mentre sedeva in panchina ( per lui il calcio era tutto e la sua fine non può che profumare di poetico) e l’allievo Sheva si sentì in dovere di rendergli omaggio portando sulla sua lapide la Champions vinta l’anno dopo. Non era brasiliano però…che goal che faceva!













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