Il bulldog dei pali: José Luis Chilavert
- Luca Fazi
- 27 lug 2019
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- di Luca Fazi - Europa o Sudamerica, Italia o Paraguay poco importa: nelle partitelle tra bambini, a porta viene relegato o il più scarso tecnicamente o quello più piccolo anagraficamente parlando. Non esistono eccezioni e mai ci saranno perché indifferentemente dallo spicchio di mondo preso in esame tutto ciò varrà come legge universale… almeno che il predestinato sia anche il “cocco” di chi porta il pallone (condizione che potrebbe mutare i secolari equilibri). José Luis Chilavert non stava nelle grazie del proprietario della sfera (che quasi sempre era un ammasso di stracci rotolante su superfici ben altro che regolari) e allo stesso tempo risultava il più piccolo del gruppo; suo fratello maggiore se lo portava con sé visto che in fin dei conti, seppur giovanissimo, mostrava già un buon livello, ma niente sconti familiari: “Vai in porta e non dar fastidio ai grandi!”. Solo che l’estremo difensore per scelta, degli altri, non amava passare inosservato e impiegò pochi pomeriggi a mettere le cose in chiaro: “Voi giocate ma vi dirigo io!”. Niente di strano, in fondo quel numero uno l’aveva già tatuato nelle vene; balzi da felino, uscite impeccabili e continui urli per sistemare la squadra erano i cardini del suo repertorio. El Chila però non aveva completamente abbandonato il sogno di giocare davanti e comparire, perché no, nel tabellino dei marcatori: i tiri da fermo sono quasi sempre i suoi.

A soli quindici anni debutta nel secondo livello del campionato paraguaiano, nemmeno ventenne conquista il suo primo titolo nella massima serie con la divisa giallonera del Guaranì. Appare chiaro come quel ragazzo, che nel frattempo aveva messo su esperienza e muscoli, sia un predestinato obbligato prima o poi ad entrare di diritto nelle leggende del calcio mondiale. Tre anni al San Lorenzo e poi finalmente lo sbarco nel vecchio continente indossando la maglia del Saragozza; i trofei non arrivano ma se l’esperienza in Argentina si dimostrerà buona sotto diversi aspetti, ciò non si verificherà in Spagna.

Lo stile di Chila non è apprezzato da tifosi e società che guardano con occhio negativo quelle tante, troppe, uscite fuori dai pali con il pallone tra i piedi. Non vive però solo periodi negativi infatti, il 27 agosto del 1989, riesce ad esordire con il suo Paraguay in un match valido per Italia90. Gli avversari sono i colombiani di Valderrama e soci, in un incontro apparentemente già indirizzato per l’1 a 1… ma Higuita, altro portiere destinato a far la storia a modo suo, commette un errore madornale. Al novantesimo esce a bomba su un calciatore paraguaiano e l’arbitro non ha dubbi: calcio di rigore. A batterlo nessun attaccante o giocatore dai piedi buoni ma proprio l’estremo difensore Chilavert; era pur sempre quel ragazzino che da piccolo veniva messo tra i pali nonostante sognasse di essere protagonista in mezzo al campo.
Pochi passi per sistemare il pallone… pochi passi che anticipano un finale da scrivere solo con due copioni a disposizione: o beffa o trionfo. C’è chi spera, chi si affida alla sorte nella speranza che sia benevola ma Chila no… Chila sa perfettamente che quello sarà il suo giorno. Palla alla sinistra del portiere che tenta il tuffo nella parte opposta: la Colombia è sconfitta. Dal 1991 al 2001 torna in Argentina con il Vélez, dove ritrova la passione della gente e soprattutto la stima di tutto l’ambiente. Dieci anni colmi di successi, trionfi che nella storia del fortino non erano mai arrivati ma dal 1993, sotto la guida di Carlos Bianchi, saranno solide realtà.

Il mago di Buenos Aires costruisce una squadra capace di dire la sua indipendentemente dall’avversario di turno, che sia il River Plate o gli invincibili del Milan targato Capello. Proprio nel 1994 la compagine rossonera, che aveva appena sconfitto ed umiliato nella notte di Atene il Barcellona, si ritrovò a sfidare il Vélez nella finale di Coppa Intercontinentale. Il primo tempo si chiude a reti bianche poi ci pensa un disastroso Costacurta a far salire gli argentini sul tetto più alto del mondo. Questi passano in vantaggio su rigore per il fallo del difensore rossonero, dopo che il Milan, con Massaro, si era reso pericoloso nell’azione precedente. Miracolo di Chilavert e rilancio lungo del portiere che propizierà il penalty eseguito da Trotta.

Bianchi lascerà nel ’96 la panchina per sedersi in quella giallorossa della Roma ma l’esperienza nello stivale durerà come un gatto in tangenziale. Si porta con sé il difensore Trotta (uno dei tanti bidoni) e cercherà di far fuori dalla rosa un talento purissimo come Francesco Totti: alla fine il pupone restò e a far le valigie toccò al mago, per l’occasione maghetto, argentino. Con il Vélez Chilavert vince tutto e di più, tanto da ritentare nuovamente l’avventura in Europa, destinazione Strasburgo. Con i francesi alza una coppa nazionale (segnando il rigore decisivo nella lotteria della finale, dopo averne parato uno) ma l’aria transalpina sembra soffocarlo.
Come rescindere il contratto senza avere conseguenze penali? Semplice, Chilavert falsifica dei documenti medici per mostrarsi inabile all’attività sportiva; arriverà in seguito una condanna definitiva di sei mesi di carcere ma che alla fine non sarà scontata. Nel 2002 passa al Penarol e riesce, a 38 anni, a conquistare un altro titolo nazionale… ultimo della sua carriera. C’è tempo per fare un breve ritorno in quel Vélez al quale aveva dato tanto e dal quale era stato amato senza freni. Con la nazionale riesce a disputare due mondiali di fila (record assoluto per il Paraguay, poi saranno quattro in totale) finiti sempre con l’eliminazione agli ottavi. Quelli di Francia98 furono i più dolorosi, visto che subì la rete di Blanc (primo golden gol della storia dei mondiali) praticamente ad un soffio dai rigori… e chissà come sarebbe finita con quel pazzo tra i pali.

Il carattere non gli mancava proprio e per seguire i suoi principi sarebbe stato capace di tutto. Come quando, per la Coppa America del 1999 giocata proprio in Paraguay, decise di non partecipare fregandosene pure delle sollecitazioni di Lino Oviedo, leader del Partido Colorado. Quella gente, a dire del Chila, aveva impoverito il paese con anni di soprusi e l’evento calcistico avrebbe tolto ulteriore denaro ai più disgraziati; servivano piuttosto dei fondi per finanziare l’istruzione e migliorare le scuole… il portiere, con la sua presenza alla manifestazione, avrebbe fatto il gioco di quei pochi che comandavano con violenza i tanti. Non ci pensò due volte neppure quando sputò in faccia a Roberto Carlos (in un match di qualificazione per i mondiali nippo-coreani), reo dell’espressione razzista “Indio, le ganamos 2-0”. Il problema non era lo sberleffo per la sconfitta del Paraguay ma ciò che aveva acceso l’animo del numero uno era stato quel “indio” (indiano) detto con disprezzo e per screditare.
Chilavert non aveva solo un volto perennemente arrabbiato, come se fosse in conflitto con il mondo, ma anche una personalità forte quanto passionale. Vederlo nelle vesti da opinionista sportivo fa uno strano effetto (aldilà dei diversi kg presi) per chi l’ha visto balzare come un micio assatanato da palo a palo e specialmente per chi l’ha ammirato per ben 62 volte bucare la rete avversaria… o con una punizione, o con un rigore o, perché no, pure su azione.

Se non ci fosse stato quell’intramontabile Rogerio Ceni a superarlo (poi di gran lunga) nel 2006, il caro Chila sarebbe stato ancora più straordinario… ma un personaggio del genere non può essere minimizzato per un record strappatogli. Amico (tanto da pagargli le cure per i problemi di cuore) dello scrittore Augusto Roa Bastos prese da questo l’onestà di combattere e ribellarsi a chiunque eserciti violenza nei confronti del prossimo… un modo di vivere e comportarsi che Chilavert non hai mai mancato di perseguire. Il letterato stava scrivendo una biografia proprio sul portiere, ma la morte lo colse prima di concluderla. Di recente l’ex numero uno dichiarò: “Quando morirò vorrei le mie ceneri nello stadio del Vélez… in entrambe le curve per non fare torti a nessuno”. Ditemi voi se questa non è pura poesia. Certamente più delicata di quel “Ballack puzzava di capra”.














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