Maledetto 4 marzo 2018 - Il ricordo di Davide
- Luca Fazi
- 4 mar 2019
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 4 mar 2022

Ci sono lutti che anche se non riguardano il nostro piccolo ambito familiare restano comunque impressi nella mente e le emozioni provate sono molti simili a delle pugnalate dritte al cuore…un cuore con una ferita dolorosa che non smette di sanguinare. Sì perché quando a lasciare questa vita è un ragazzo appena trentunenne, oltretutto dall’animo buono e con il sorriso tatuato in viso, fa doppiamente male. Quel maledetto 4 marzo 2018 di cose ne ha cambiate a partire dalla sensazione che noi tutti, amanti del pallone, abbiamo a riguardo dei loro protagonisti; giovani e prestanti, li osserviamo da sempre come colossi indistruttibili per i quali non è contemplata la morte. Mi rendo conto che il prospetto può risultare alquanto infantile ma sfido chiunque ad etichettare quegli uomini in maglietta e calzettoni come persone “normali”. Certo, guadagnano cifre sconsiderate e alcuni di voi faranno presente che le disgrazie sono quotidiane e colpiscono tanta povera gente; però mettiamo il cuore di ghiaccio da parte insieme alle chiacchiere da bar e per un attimo soffermiamoci a pensare che Davide Astori, dopo l’allenamento e le partite, aveva come noi comuni mortali dei genitori da chiamare e una casa da raggiungere in fretta per poter dare un bacio alla compagna Francesca e alla piccolissima Vittoria…il suo orgoglio più grande. Il difensore si abbassa per stritolare di coccole la sua dolce principessa, fotografate mentalmente questa scena, e tutto allora vi sembrerà armoniosamente normale. Peccato solo che la classica routine si sia bruscamente spezzata proprio quando certi amori dovrebbero sbocciare. L’amore di un padre, le carezze, le passeggiate mano nella mano e i sorrisi d’intesa carichi di sincero affetto…tutte abitudini che la piccola Vittoria non potrà mai assaporare, perse prima di capirne già solo l’importanza. Nulla di anomalo c’era nella vita di Astori eccetto un problema cardiaco genetico e subdolamente invisibile da poter intercettare; per il resto solo tanta e sana normalità. La normalità di chi quella sera giocava alla play in camera del compagno Sportiello prima di coricarsi da solo nella sua. Aveva dimenticato le scarpe nella stanza del portiere con la promessa di andarle a recuperare la mattina seguente…quanto sarebbe bello se tutto fosse stato un brutto incubo e nelle prime ore del giorno fossi andato a riprendere le tue calzature. La normalità di chi, ai tempi delle giovanili del Milan, chiedeva a Gattuso e ai veterani vari il permesso di poter utilizzare la palestra appena liberata dalla prima squadra; come se quell’ambiente non fosse anche casa sua, come se avvertisse un profondo senso di rispetto e inadeguatezza verso tutti quei campioni. La normalità di chi trova un portafoglio per strada ed invece di fregarsene contatta il proprietario aspettandolo con il classico sorriso spalancato che lo contraddistingueva. Pazienza se capita in un giorno libero da dedicare alla famiglia e per attendere l’arrivo del distratto servono almeno trenta minuti…pur giocando in A da anni niente arie da vip, non sarebbero le sue.

Come dite? Tutto ciò non è normale? Avete ragione, in un mondo malato come quello odierno certi gesti sono da uomini d’altri tempi; di quelli che domandano “permesso” e se sbagliano chiedono scusa. Non era un fuoriclasse in campo? Avete ragione anche qui ma lo era nella vita anche per quel poco (ma tanto) che si è scritto poc’anzi. Sul rettangolo verde il buon Davide apparteneva alla categoria dei leader silenziosi che bacchettano sì i propri compagni ma senza grandi urli…un’occhiata d’intesa era abbastanza eloquente. La gavetta prima dell’esordio in A con il Cagliari e poi un anno alla Roma dove sperava di rimanerci; Davide non era rancoroso eppure quel mancato riscatto giallorosso l’aveva portato a non provare molta simpatia per il dirigente, Walter Sabatini, “reo” nella vicenda. Firenze era diventata un’altra casa accogliente dove Astori aveva trovato pure la fascia da capitano dopo l’addio di Gonzalo Rodriguez. In Nazionale invece l’orgoglio dell’esordio (non andato proprio benissimo) e quell’unica rete nella finalina di Confederations Cup quando vestiva la maglia del Cagliari…un altro gol “sardo” in azzurro dopo quarant’anni di astinenza da quello di Gigi Riva. Il lunedì, appena ventiquattro ore dopo quella maledetta domenica, avrebbe incontrato la dirigenza viola per firmare un nuovo contratto e mettere le basi per chiudere la carriera sotto la Fiesole; la neve dei giorni prima aveva posticipato il meeting che doveva essere solo formalità…ma che non prenderà mai corpo. Pure Percassi (presidente dell’Atalanta) in un confronto l’aveva abbracciato chiedendogli di passare l’ultimo periodo da giocatore nella sua squadra. Bergamo richiama le zone dell’infanzia e poi perché è facile affezionarsi alle persone speciali: Davide lo era e il numero uno nerazzurro lo sapeva benissimo. La grandezza dell’uomo? E’ tutta racchiusa in quella folla a Santa Croce mentre si celebrava il suo funerale.

La commozione non solo era sincera ma sentita in maniera straziante e in quell’occasione le bandiere presenti non venivano divise dai colori ma unite dalla stessa tinta, ovvero l’amore per Astori. La sua stanza nell’albergo friulano era la 118, come il numero d’emergenza…chissà se si fosse salvato con un pronto intervento. Pinilla, ex compagno al Cagliari, dopo poche ore segna a Santiago del Cile con la sua Universidad e scoppia in un pianto liberatorio indicando il cielo: l’amore per Davide non conosce confini. La maglia numero 13 (in onore del suo mito Nesta) non avrà più proprietari, al Cagliari come alla Fiorentina, ma la speranza è che in futuro ci siano sempre più calciatori come lui…umanamente unici. Davide in ebraico significa “amato”; nomen omen dicevano i latini e in questo caso avevano pienamente ragione perché era impossibile non volergli bene.













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