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  • Immagine del redattoreLuca Fazi

"Era un vero animale da gara": Giorgetti ricorda Phil Masinga



- di Luca Fazi - Il 13 gennaio del 2019, in una stanza di ospedale di Johannesburg, se ne andava Philemon Masinga (ribattezzato affettuosamente dai tifosi MaZinga), storico centravanti del Bari di fine anni novanta/inizio duemila.

Il sudafricano, dopo gli inizi in patria, aveva calcato i campi inglesi e svizzeri prima di sbarcare in Italia. Con la Salernitana, in B, la prima avventura nel nostro campionato e poi la chiamata dei biancorossi guidati da Eugenio Fascetti.

Lo ricordiamo attraverso le parole dell’ex compagno di squadra Rodolfo Giorgetti. Il centrocampista ha condiviso lo spogliatoio con Masinga per ben tre stagioni, centrando sempre la permanenza in A, dal 1997 al 2000.


Masinga e Giorgetti nel Bari 1998-1999

Dodo, quando hai conosciuto Masinga?

“La prima volta che ho visto Phil fu da avversari, in un Bari - Salernitana dell’aprile 1997. Lui giocava con i granata e mi colpì per le cose che mostrava in campo. Inspiegabilmente venne sostituito nella ripresa e noi tirammo un sospiro di sollievo perché la sua pericolosità era lampante.

Porto nel cuore quella gara. Entrai nel secondo tempo e segnai al novantesimo il gol vittoria. Furono tre punti pesantissimi per la nostra promozione in massima serie”.


E poi?

“E poi, a stagione conclusa, la società lo portò a Bari per rinforzare la rosa, anche in virtù della sua annata a Salerno”.


Quale fu la prima impressione su di lui?

“Voglio essere onesto: sia io che molti altri nutrivamo forti perplessità. Ci raggiunse a Bari non giovanissimo e con qualche acciacco fisico; in allenamento sembrava frenato, non ti rubava gli occhi, e già dalla prima seduta temevamo che non potesse esser utile alla causa… ci siamo sbagliati alla grande.

Phil è il classico animale da gara, quello che si fa sentire quando la posta in gioco è alta. Per farla breve: l’esatto contrario del calciatore del giovedì. Sapeva gestirsi e tirar fuori il meglio durante le partite. Nel nostro calcio non era ancora molto conosciuto ma divenne una piacevolissima scoperta”.


Castigatore negli scontri diretti ma anche sentenza contro le big, come l’Inter: quanto era importante per voi?

“Non voglio fare il gioco delle percentuali ma sicuramente, in quel Bari, fu determinante. Era un calciatore di peso, che sapeva fare reparto da solo. Utilizzava la sua prorompente fisicità anche per giocare di sponda e far salire la squadra. Al di là del punteggio finale, potevamo giocarcela con tutti. Quando andava in nazionale era una grande perdita”.


Che tipo era fuori dal campo?

“Aveva un carattere chiuso, molto riservato… certamente non era il casinista o burlone della situazione, come il sottoscritto. Lo ricordo con affetto perché era un ragazzo di una grandissima educazione. Poi era molto elegante, un vero gentleman nella sua completezza”.


Hai un aneddoto in particolare su di lui?

“Più che un aneddoto mi fai venire in mente una cosa divertente. Mi ricordo di quando acquistò una SLK e la fatica che faceva ad entrarci perché era alto quasi un metro e novanta. Ci faceva ridere quando arrivava: vedevi la “macchinina” con questo gigante che usciva fuori, sempre impeccabile nel look. Inoltre non era un’auto semplice da guidare e non aveva molta dimestichezza nel portarla”.


Con lui hai condiviso pure il tabellino dei marcatori…

“Sì, in un Bari - Piacenza del ’99 che fu una partita veramente assurda. Era uno scontro diretto importantissimo e Masinga ci aveva riportati in vantaggio nei minuti finali.

Al novantesimo ci viene concesso un rigore e il tiratore designato aveva già preso la palla. Io andai da lui per incoraggiarlo ma interpretò il gesto come se volessi battere io… così mi ritrovai il pallone tra le mani. A quel punto non potevo più tirarmi indietro e ho calciato senza pensarci molto. Non avevo mai battuto un rigore in vita mia… per fortuna andò bene”.



Qual era il segreto di quel Bari?

“Ce n’erano diversi, a partire da mister Fascetti e dal direttore generale Regalia. Molti giocatori venivano pescati dalla C o dai settori primavera e tanti altri provenivano dai campionati esteri. Riflettendoci avevamo in rosa una decina di nazionalità e nessuno sapeva parlare l’inglese: esperimenti folli se pensi al calcio odierno. Tuttavia c’era coesione nel gruppo e le scelte poi si sono rivelate giuste.

Pochi giocatori hanno deluso le attese. Facendo dei nomi mi vengono in mente solo Allbäck e l’argentino Markic: forse, per le premesse, si sperava in qualcosa di più”.



Hai vestito la maglia del Bari (prima) e quella del Lecce (poi), strappando consensi in entrambi i casi: come ci sei riuscito?

“Io sono stato sempre un calciatore di quantità, tanto lavoro e abnegazione. Potevo ripagare la gente solo con la moneta del sacrificio e alla fine uscivo sempre con la maglia sudata. Non ci sono trucchi se non quello di essere una persona normale che in campo dava tutto.

Mi fanno molto piacere i complimenti “bipartisan”, anche perché sono delle tifoserie che ritengo molto intelligenti… sanno apprezzare chi dà tutto. Ti assicuro che quando giocavo a Bari non era semplice, perché erano anni di contestazioni e forse quel che siamo riusciti a fare è stato valorizzato nel corso del tempo. Ne vado fiero, significa che qualcosa di buono l’ho fatto”.


Tornando a Phil, ti è capitato di rivederlo dopo aver appeso gli scarpini al chiodo? Come hai reagito quando hai saputo della sua scomparsa?

“Purtroppo no… è ritornato in Sudafrica e non c’è stato modo. Fu una doccia fredda perché non sapevo che stesse male. Mi è dispiaciuto parecchio. Oltre ad essere stato un mio compagno di squadra era soprattutto una persona buona e dalle qualità morali importanti.

Non è stata la prima volta che ho visto andarsene un collega; quando mi hanno riferito della scomparsa del mio amico Klas (Ingesson, ndr) rimasi a piangere per tre ore, seduto su una panchina. Non ce l’ho con la morte… fa parte della vita. Ce l’ho semmai con la sofferenza… ecco, questa riesco a digerirla male”.


Grazie per questi ricordi…

“Grazie a voi e un saluto a tutti i lettori di In Barba al Palo”.

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