4 maggio 1949: la morte degli immortali
- Luca Fazi
- 4 mag 2019
- Tempo di lettura: 7 min

- di Luca Fazi - “Ho visto il Grande Torino vincere partite già perdute e stravincere partite già vinte. Non ricordo di averlo visto mai perdere.” (Gianpaolo Ormezzano)
Le morti premature, i tragici eventi, i grandi misteri irrisolti, portano inesorabilmente con sé l’aura di una mitizzazione dai sapori aspri e decisi. Ci sono dietro bagagli pesanti da sopportare e forse drammi mai completamente digeriti, come ferite insanabili che squarciano il cuore in due. Il Grande Torino no, non aveva bisogno di quella fine disumana per passare alla storia e divenendo così immortale…lo era già. Quelle maglie color granata erano già motivo d’orgoglio nazionale e non a caso proprio la formazione degli Azzurri di quel periodo si componeva per la quasi totalità di giocatori del Toro. Nel ’43 il primo scudetto (il secondo della storia) arrivato non senza fatiche e dopo un inizio altamente deludente; nel derby con la Juve però si vedranno i primi segnali anche grazie a Loik e Mazzola, entrambi presi ad inizio stagione dal Venezia. Uno mezzala destra, l’altro mezzala sinistra per creare una coppia destinata ad essere tecnicamente invidiata più che invidiare. Il secondo conflitto bellico mondiale però spazzò via pure il mondo del pallone, almeno quello ufficiale, e alla squadra piemontese non rimase che stipulare un accordo con la Fiat attraverso il quale i calciatori entrarono nella polisportiva della casa automobilistica. Nel ’45 si riprese con quella sfera di cuoio che ora come non mai profumava di sana evasione per le classi più o meno povere… le stesse chiamate a dover ripartire da zero, se non ancora più in basso. Sport popolari usati come dolcificanti per l’anima, così il pallone e il ciclismo riportavano in alto l’italianità sotterrata in parte dagli orrori della guerra: Mazzola e Coppi fuoriclasse assoluti di due mondi diversi ma legati insieme dallo stesso filo, quello dell’orgoglio nazionale. Con le due ruote Fausto e il vecchio Ginettaccio scrivevano poesie tricolori su fogli di breccia dalla pendenze proibitive, il Grande Torino invece assumeva sempre più i gradi della squadra tifata da tutti, un motivo di vanto per qualsiasi italiano degli anni quaranta.

Si concludono le stagioni ma a fine campionato gli scudetti rimangono cuciti sempre sulle stesse maglie granata, come un epilogo scontato: campioni d’Italia per cinque volte di fila e il capitano Valentino Mazzola è il simbolo perfetto del club, corretto fuori e dentro il campo oltre che atleta talentuoso. Per l’uomo di Cassano d’Adda la lealtà è un valore fisso nella sua vita e una parola data va sempre mantenuta, soprattutto quando si ha davanti una persona in difficoltà. Nel febbraio del ’49 c’era stata un amichevole a Genova fra Italia e Portogallo (terminata 4 a 1 per i padroni di casa) ed il lusitano Francisco Ferreira, che navigava in cattive acque, aveva confidato al capitano azzurro i propri problemi economici. Poche parole e sguardi intensi bastarono a Valentino per trovare la soluzione giusta: organizzare un match fra Torino e Benfica (il club di Ferreira) con parte dell’incasso donato al centrocampista delle Aquile. Insomma, come era solito a quel tempo, una sorta di partita d’addio per un grande calciatore omaggiato dal confronto con il club granata, ossia l’undici più apprezzato e temuto del momento. Mazzola non ha nessuna intenzione di rimangiarsi la promessa fatta, pur dovendo superare la contrarietà del suo presidente, Ferruccio Novo, che non vedeva di buon occhio una trasferta così lunga in aereo, dove i voli non erano sicuramente confortevoli ed attrezzati come quelli odierni. Solo che il Toro viaggia in Seria A con delle velocità supersoniche in stile, per rimanere in tema, Concorde… anche se il prodotto anglofrancese non era ancora minimamente contemplato; non c’è più la Juve, spesso relegata al secondo posto dai granata, a contendergli lo scudetto ma l’Inter del bomber francese (naturalizzato ungherese) Nyers. Il 30 aprile del ’49 nel capoluogo lombardo va in scena lo scontro diretto che può ridare speranze ai nerazzurri o lasciare l’ennesimo e rassicurante vantaggio alla compagine piemontese. Alla vigilia capitan Mazzola bussa alla porta del suo presidente: “Se non perdiamo il confronto con l’Inter lei ci lascia partire per Lisbona”. I padroni di casa tengono già dai primi minuti il pallino del gioco ma il cuore granata regge le incursioni nemiche e tutto termina con un pareggio a reti inviolate…obtorto collo, il presidente Novo è costretto a far partire i suoi ragazzi. Non era accaduto nemmeno in tempo di guerra quando aveva promesso (e mantenuto) di tutelare i suoi “figli” sportivi proteggendoli dalla chiamata al fronte; questa volta no, l’impegno preso non partiva dalla sua bocca ma da quella del suo capitano e quest’ultimo non era uomo da ripensamenti.

Si vola così per il Portogallo e le immagini dei ragazzi mentre salutano prima della partenza, con il senno di poi, diventano ancor più strazianti. Nessuno può cogitare che quella fusoliera si trasformerà nella bara di 31 uomini (fra calciatori, addetti ai lavori e giornalisti), e neppure il presidente Novo, il più perplesso a riguardo, avrebbe ipotizzato una fine simile. Dato che rimanevano ancora delle gare da giocare e con la matematica certezza del tricolore non garantita, temeva l’insolita trasferta, come fosse un distributore di stanchezza fisica e scarsa preparazione… non luogo di morte. Benfica-Torino è un 4-3 che non ha valore (in parte accomodato per omaggiare Ferreira) se non per essere l’ultima gara di quei ragazzi che avevano unito l’Italia intera almeno dal lato sportivo mentre si divideva da tutti gli altri punti di vista. Il ritorno, previsto a Malpensa, viene forse modificato con Torino per evitare i severi controlli; non si viaggiava molto all’estero e i diversi oggetti portati nei bagagli sarebbero stati facilmente requisiti… nel capoluogo piemontese invece, il Grande Torino avrebbe ricevuto un trattamento amichevole anche dagli addetti ai controlli. Tutte supposizione senza fondamento dove il condizionale obbligatoriamente trova spazio, fatto sta che fu deciso per il cambio di destinazione ma quel maledetto aereo non arrivò mai più. Le condizioni climatiche, malgrado fossero i primi di maggio, erano fortemente avverse e la visibilità scarsa non facilitava il resto. L’altimetro indica un’altezza di volo pari a 2000 metri ma è in tilt tanto che il Fiat G.212 è in verità appena sopra i 600; la basilica di Superga non è sorvolata affatto e in fase di atterraggio il velivolo si schianta sul terrapieno posteriore. Sono le 17:03 del 4 maggio 1949: il Grande Torino non c’è più.

Giornalisti, massaggiatori, tecnici e quei ragazzi fra i quali il più anziano, si fa per dire, era il bomber Gabetto con appena 33 anni: non si salva nessuno. I superstiti sono quelli che avrebbero dovuto far parte del viaggio ma che per un motivo o per un altro non salirono su quel maledetto aereo. E’ il caso del secondo portiere Gandolfi al quale venne preferito il terzo Dino Ballarin, grazie anche al fratello di quest’ultimo, il terzino Aldo, che convinse la società a portare il familiare stretto… che ironia della sorte. Oppure del primavera Giuliano, aggregato da tempo alla prima squadra, ma bloccato da questioni burocratiche e dall’influenza. Senza dimenticare Sauro Tomà, l’ultimo uomo del Grande Torino ad abbandonare questo mondo, che saltò la spedizione in Portogallo per seri problemi al menisco. Miracolati non solo tra calciatori, come il famoso radiocronista Nicolò Carosio che declinò l’invito esclusivamente per la cresima del figlio. A Vittorio Pozzo, da un anno non più allenatore degli Azzurri ma torinese doc e padre sportivo di quei giovani, toccò l’ingrato compito di riconoscere le salme; anche lui, come giornalista, era stato invitato ad unirsi al gruppo per Lisbona, ma alla fine partì il collega Cavallero. Riconobbe quei pezzi di carne maciullata non con poco sforzo e con il fazzoletto in viso pronto a tamponare le lacrime; Menti fu identificato grazie alla spilla della Fiorentina, sua ex squadra e da sempre innamorato di quei colori, Martelli e Maroso solo per esclusione… le salme erano ferocemente sfigurate.

Il pilota dell’aereo del G.212 si chiamava Pierluigi Meroni, stesso cognome di quella Farfalla granata che a quindici anni dalla tragedia di Superga riportò un po’ di brio e classe nell’ambiente Toro, prima che gli venissero tarpate le ali: è il destino che torna a prendersi beffa della squadra. Perché tifare questi colori è una missione, un senso di appartenenza forte ed orgoglioso che puntualmente si ritrova a rinascere dalle sue ceneri. Una continua lotta con qualcosa di invisibile ma che c’è, esiste e si fa sentire come una sentenza; torna il sereno e poi subito tempesta, di quelle interminabili e violente, per poi rivedersi un raggio di sole che prontamente viene offuscato da nuove ed ingombranti nubi… è la storia dei granata. Per quei ragazzi viene proclamato il lutto nazionale e ai funerali del 6 maggio si accorre in massa per donare con enorme rispetto un ultimo saluto per quei figli di tutti. Per concludere il campionato vennero mandati in campo i giovani della Primavera, gli unici rimasti o poco più, ma la Federazione aveva già deciso di proclamarli campioni d’Italia, dandogli uno scudetto che le vittime di Superga erano riuscite comunque ad ipotecare in precedenza. Le altre squadre? Nel lutto escono fuori i sentimenti più genuini e quindi decisero anch’esse di scendere sul manto erboso con i propri vivai. La prima gara del giovane Toro fu contro il Genoa in un Filadelfia spettrale, dove nessuno aveva voglia di supportare o lanciare cori; trenta minuti noiosi, ritmi tristemente impauriti e poi… un vento di vita che viene dall’alto. Giammarinaro la butta dentro e alza gli occhi al cielo per guardare in faccia chi deve ringraziare. Lo stadio si scioglie, i tifosi tornano a farsi sentire e si aggiungono poi altri tre sigilli granata… capitan Mazzola e la sua banda applaude da un punto di vista privilegiato. Dieci anni dopo la tragedia quei colori trovarono lo smacco della retrocessione e la nuova denominazione in A.C. Talmone Torino (in abbinamento all’azienda dolciaria… l’unico fattore ad essere dolce in quel momento) ma chissà come sarebbe andata senza quel dramma del 4 maggio 1949. Forse si sarebbero scritte altre pagine di calcio, con i granata protagonisti in positivo e leader sui campi europei e oltre… ma sono solo supposizioni.

La nostra Nazionale per i mondiali del ’50 scelse di raggiungere il Brasile in nave, arrivando stanca e fuori forma dopo un viaggio interminabile; Superga non poteva di certo non lasciar ferite anche psicologiche. Il Grande Torino avrebbe dovuto giocare quella competizione, il Grande Torino avrebbe continuato con tutta probabilità il suo cammino di trionfi in Serie A… il Grande Torino sarà sempre eterna leggenda. Non solo uomini coraggiosi e professionisti impeccabili ma soprattutto padri e figli portati via troppo presto e strappati nel modo più crudele. Eppure, nei cuori dei tifosi granata, nei resti di quello stadio, nell’aria che accarezza Torino, ancora girano quelle voci che con toni confortanti proteggono il Toro e chi lo sostiene. Come un abbraccio materno, come lo sguardo tenero e amorevole di un genitore… come quel quarto d’ora granata che invita a rimboccarsi le maniche ed alzare il ritmo. Forse allora niente andrà dimenticato e come scrisse il giornalista e storico Indro Montanelli “gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta”.
In rigoroso ordine alfabetico, il Grande Torino: Bagicalupo, Ballarin A., Ballarin D., Bongiorni, Castigliano, Fadini, Gabetto, Grava, Grezar, Loik, Maroso, Martelli, Mazzola, Menti, Operto, Ossola, Rigamonti, Schubert.
I Dirigenti: Agnisetta, Bonaiuti, Civalleri.
Staff: Cortina, Erbstein, Lievesley.
Giornalisti: Casalbore, Cavallero, Tosatti.
Equipaggio: Bianciardi, D’Incà, Meroni, Pangrazzi.













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